venerdì 22 dicembre 2017

Spazi di elaborazione

Lo spazio è tridimensionale: lunghezza x altezza x profondità.

Eppure molti di noi non vivono internamente ad uno spazio, bensì su una superficie bidimensionale in cui manca il vettore della profondità.
In poche parole la loro vita è piatta.
Il loro mondo interno è sopito.
La loro emotività è sepolta.
La loro anima soffre silenziosamente del non poter respirare negli ampi prati verdi della fantasia e volare nei cieli tersi, costellati dalle bianche e morbide nuvole della creatività.

La superficie invece ha solo due dimensioni: lunghezza x altezza.

La superficie è simile a una scacchiera che permette di muoversi in direzioni prestabilite come fanno le pedine: sul bianco, sul nero, sul bianco, sul nero, sul bianco, sul nero, sul bianco...
E' una scacchiera che permette di muoversi nella coazione a ripetere, su di una superficie di confort preconosciuta, ma priva di tridimensionalità.

La profondità purtroppo costa fatica a chi non l'ha ricevuta geneticamente, nel senso di originariamente, in eredità negli spazi primari.

Lo spazio primario è lo spazio affettivo nei nostri primi anni di vita, costituito da un perimetro genitoriale fatto di limiti certi e composto da un amalgama omogeneo di autorità e affetto.

E' in questo spazio che si organizza la mente del bambino. E' qui che le percezioni primarie del neonato, prima angoscianti e catastrofiche, provenienti da un ambiente che non conosce, acquistano un significato e vengono lenite inizialmente dalle cure materne e successivamente da quelle paterne.
Contenimento, accoglimento, tenerezza, base e attaccamento sicuri, disponibilità, maternità sufficientemente buona, reverie, sono tutte parole che definiscono questa condizione, in cui la ‘mente genitoriale’ conferisce significato all’esperienza del bambino.

Quando l'amore manca, manca tutto.

Lo spazio primario è il primo spazio di elaborazione, cioè il luogo dove la mente, definita come funzione complessa deputata ad attribuire un significato personale ed unico alla propria esperienza del mondo, inizia a formarsi.

La mente, che è altresì una funzione dinamica, cioè un insieme di forze e processi psichici in interazione e movimento, continua a svilupparsi, quindi ad evolvere o anche a regredire.

La mente evolve verso livelli più maturi quando incontra degli spazi di elaborazione adeguati, mentre si ferma o regredisce a livelli più arcaici, quando questi spazi vengono a mancare.

Il vettore 'profondità' è costituito dall'affettività.

Man mano che dalla superficie ci si cala in profondità dentro di sé, ci si inoltra nello spazio delle emozioni e dei sentimenti.

Una vita priva della dimensione affettiva, anche se fosse possibile, non avrebbe molto significato e mimerebbe semmai l'esistenza di una macchina.

Eppure molto spesso, per privazioni o deprivazioni, per traumi subiti, molte persone chiudono la porta al loro mondo interiore, e così facendo si escludono dalla possibilità di progredire ed attribuire un significato profondo alla loro esperienza di vita.
Vivono in superficie per proteggersi dal dolore.

Ma forse vi sarete chiesti dove vogliono portare tutte queste mie considerazioni.


Riparto dal titolo che ho voluto dare a questa breve riflessione:
“spazi di elaborazione”.

Sono pochi gli spazi di elaborazione in cui si riesce a crescere come persone e credo che in futuro ce ne saranno sempre meno.

Tutto questo mio discorso nasce da un incipit che mi ronzava per la testa, cioè il biotestamento.

La legge sul biotestamento (Legge 22 dicembre 2017, n. 219 - Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”), apre di fatto la strada all’eutanasia. Qui tuttavia non voglio entrare nel campo minato delle opinioni e delle convinzioni personali.

Dei vari aspetti che si possono prendere in considerazione riguardo l’eutanasia, in questo frangente voglio considerarne solamente uno, che è quello della profonda crisi interiore in cui si trova colui che vede la morte come unica possibilità di fuga da un vivere che ritiene intollerabile.

La vita principalmente è uno stato mentale e una delle caratteristiche di uno stato mentale, proprio perché la mente è dinamica, è che è mutevole. Insomma lo stato mentale è una condizione interiore della persona, passibile di cambiamento.

Una crisi interiore profonda, come quella di colui che vede in faccia una morte concreta, per esempio legata a un malattia incurabile, è una crepa sul mondo conosciuto. Un'incrinatura della superficie di cui parlavo prima, da cui trasudano i fantasmi oscuri dell’incertezza, della paura, dell’angoscia, della solitudine, della disperazione per un orizzonte futuro che si è disperso, perché disgregato da una malattia o da un trauma subito.
La profondità affiora, ed emergono, come il magma fuso in ebollizione che sale lungo un camino vulcanico, contenuti psichici arcaici e manifestazioni affettive intense, che, se mai percepite e vissute come parte integrante della propria identità, possono condurre ad un'angoscia intollerabile a cui è preferibile il nulla, il non sentire, l’anestesia, la morte.

Purtroppo oggi viviamo in un mondo anestetizzato, in cui l’eutanasia rappresenta un'anestesia totale e definitiva.

Con l’eutanasia si ottiene il risultato di sopprimere, prima che un individuo, l’ultimo possibile spazio di elaborazione, che quella persona avrebbe potuto sfruttare per conferire un significato autentico e profondo alla sua esperienza di vita. L’ultimo frangente disponibile per conferire a quell'esistenza una tridimensionalità, che forse non aveva mai sperimentato. L’ultima spiaggia per elaborare quelle dimensioni dell’affetto che mai avevano potuto emergere.

Pertanto, consideriamo l’influenza che il pensiero sociale può avere sullo stato mentale di una persona in una crisi così profonda.

Questa persona dovrebbe essere circondata da un contesto affettivo, una rete sociale, esseri umani, relazioni, che le trasmettano amore per la vita, fiducia, ascolto, contenimento, accoglimento. Pertanto ambienti e persone che predispongano uno spazio di elaborazione della sua esperienza e la accompagnino umanamente nell'elaborazione del dramma che sta attraversando, trasmettendo una vicinanza emotiva, fondamentale per ripristinare la motivazione alla vita.

Tra una società ‘favor mortis’ e una società ‘favor vitae’ esiste una bella differenza.

Oggi sicuramente viviamo in una società ‘favor mortis’ e quello che viene proposto quotidianamente, a più riprese dai media e ad ogni livello sociale, pare essere il messaggio che appena arriva il momento più difficile, quando arriva una malattia incurabile o una condizione di vita ritenuta intollerabile (del resto potrebbe essere anche la noia), non c’è nessun problema, si stacca la spina e si evita di soffrire inutilmente.
E’ proprio quell’inutilmente a lasciarmi perplesso.

La sofferenza è inutile se non viene elaborata. Cioè quando rimane priva di significato. 
La sofferenza se è invece condivisa, diviene una perla preziosa di autenticità e di umanità. 
Ma deve essere riconosciuta, ascoltata, accolta da persone capaci di accogliere, contenere ed amare.


venerdì 1 dicembre 2017

Sul feedback e altre storie

Stamane la mia riflessione parte dal feedback.
Non farò uso di wikipedia o di altre risorse social o network.
Nessun copia e incolla. Solo il mio semplice pensiero e le mie semplici osservazioni del momento.


Da poco ho fatto un corso online (su Coursera) sulla Gestione delle Risorse Umane in azienda e da poco mi sono iscritto a un Master in Risorse Umane e Organizzazione.
Durante questi corsi si è ritornati molto sul concetto di feedback e sulla sua importanza.

Una comunicazione è costituita da un entità trasmittente, un messaggio e un entità ricevente.
Vedere una comunicazione come un processo lineare che va dal trasmittente al ricevente è molto riduttivo e in effetti, ciò che è stato sviluppato nel paradigma sistemico-relazionale è il concetto di comunicazione come processo circolare.

Ciò che rende circolare la comunicazione è appunto il feedback, in italiano 'fidobecco', cioè il messaggio di ritorno che il ricevente del messaggio trasmette al trasmittente.

Il messaggio è trasmesso attraverso due modalità: una analogica e l'altra digitale.

In una comunicazione sana le due modalità, analogica e digitale, dovrebbero essere sintonizzate in modo armonico. Spesso però succede che le comunicazioni, le quali corrispondono sostanzialmente alle relazioni, siano patologiche, e in questi casi allora il modulo digitale, il dato puro e semplice, non corrisponde al modulo analogico.

Il modulo analogico è quello più importante a livello relazionale e definisce la maniera in cui il modulo digitale deve essere valutato e compreso dal ricevente. In questo modo definisce l'interlocutore.
Il modulo analogico comunica all'interlocutore come viene percepito dal comunicante, come il comunicante definisce e vede l'interlocutore.

Facciamo un esempio:
Il marito dice alla moglie «cara, lo sai che ti amo» (modulo digitale), e mentre le comunica questo le gira la schiena, magari la scansa allontanandola evitando un abbraccio o un bacio che lei gli vuole dare (modulo analogico).
Evidentemente qui c'è un contrasto tra le due modalità, analogica e digitale.
Tra le due modalità la più importante a livello di relazione è sempre la modalità analogica che definisce il rapporto tra i due comunicanti.
Analizzando la vignetta precedente della moglie e del marito, il marito, attraverso la modalità analogica, non sembra considerare o amare molto la moglie e quindi definisce in qualche modo il rapporto con lei, definisce come lui vede la propria moglie, quindi la definisce. 

Ritorniamo ora al feedback dopo questo breve excursus sui processi comunicativi.

Il feedback da diverse indicazioni.
Un feedback c'è sempre, perché come cita il primo assioma della comunicazione: è impossibile non comunicare.

Quindi anche il silenzio è un feedback.
Potrebbe ad esempio significare «per me non esisti, non ti considero», oppure potrebbe significare anche «ti temo, non mi sento in grado di rispondere, non so cosa dire, preferisco non rispondere». Il silenzio si presta quindi a varie interpretazioni, potremmo dire che in alcuni casi è ambiguo e porta a fraintendimento.
In altri casi, e sono molti, invece il silenzio può essere l'unico feedback veramente adatto, perché trasmette rispetto e ascolto autentico, per esempio partecipazione empatica a un dolore.

Nella pratica aziendale viene consigliato ai responsabili, ai team manager, di dare sempre un feedback ai propri collaboratori. Soprattutto un feedback positivo, perché l'impatto sull'efficienza e sull'autostima tra un feedback positivo e un feedback negativo è di 3:1; in altre parole un feedback negativo ha un impatto sull'autostima e sull'efficienza, in termini assoluti, tre volte superiore rispetto a un feedback positivo.

Però non sempre si può dare un feedback positivo, a volte è necessario dare dei feedback negativi per mettere in evidenza delle cose che potrebbero essere migliorate.

In questo caso allora ciò che va evitato è la generalizzazione. E' necessario invece focalizzare l'attenzione sul caso specifico.

Un esempio: se un collaboratore ha sbagliato a fare il calcolo dell'IVA su una fattura, il capo ufficio non dovrebbe dirgli «dopo tutto il tempo che lavori qui non sei ancora capace di calcolare l'IVA correttamente!», piuttosto dovrebbe dare al suo subalterno un feedback proattivo e propositivo, del tipo «mi sembra che nel calcolo dell'aliquota IVA della fattura 568/2017 ci sia stato un errore di calcolo. Ti prego di ricontrollarla. Sono certo che è stata una svista del momento e che non accadrà più».
Quindi mai generalizzare, perché il generalizzare da un giudizio sulla persona e non sul particolare caso.

Sembrerebbero piccole cose, ma in realtà sono cose che incidono in maniera pesante sul clima di un gruppo, di un team, di un'organizzazione.

In sostanza tutto parte dalla capacità di introspezione e dalla motivazione alla costruzione di ambienti e climi positivi e di condivisione, e questo è tanto più importante quanto più una persona detiene una posizione di potere su qualcun altro.

Il potere significa anche responsabilità.
Purtroppo a me sembra che questo sia poco chiaro a tanti potenti che il potere lo detengono.

mercoledì 29 novembre 2017

Spessore

Spesso mi soffermo sul concetto di ‘spessore’

Non parlo di spessore del tavolo su cui sto posando i gomiti e il mio notebook, circondato dal rumore della pioggia fuori dalle ampie finestre dell’ufficio e dagli altri click di dita che battono su altre tastiere



Colleghi di altre nazioni, giapponesi, pakistani, egiziani, che parlano con i loro collaboratori e amici lontani, in altre lingue e altre culture

Per 'spessore' intendo lo spessore di vita
E’ difficile quindi comprendere cosa intendo per ‘spessore’

Ci pensavo anche stamane, mentre con la macchina mi sono fermato allo stop vicino alla grande chiesa nel centro del paesino carsico di Basovizza, paese dove ha sede il centro di ricerca internazionale presso il quale lavoro.

All’interno la chiesa è buia e a volte ci sono andato all’ora di pranzo a contemplare il crocifisso nella penombra e a pensare alle Sue pene.

Tutto va preso con equilibrio.
Gli eccessi non sono per me. Mi destabilizzano.
Mi eccitano e pure mi attraggono, ma non sono per me.
Un limite legato ai miei retaggi d’infanzia e a vissuti troppo forti.

Lo spessore è sentire dentro di sé la propria esistenza, gli anni passati, il proprio bagaglio di vita.
Lo spessore dà sicurezza e una certa dose di autorevolezza.
Permette di dire «ho vissuto, qualcosa so, quello che ti dico ha valore, se vuoi accettalo, non è superbia, non è autoreferenzialità, ma esperienza di vita che ho attraversato».

Senza spessore si vive esclusivamente nel presente, si è bandierine che girano a seconda del vento.
Si è puntiformi e deboli.
Fragili vittime delle intemperie spesso inclementi della vita.

Qualcuno inneggia alla felicità come alla meta da raggiungere.

A me la felicità non interessa particolarmente, almeno per come oggi viene intesa questa parola.

La sento una parola vuota, fredda, evocatrice di cose frivole e superficiali.
Mi interessa invece la pienezza, la gioia autentica, l’amicizia, la solidarietà, la condivisione. Se poi questa condizione si vuol chiamare felicità, beh, allora ben venga la felicità.

Però oggi mi pare che a parlare di queste cose si sia in pochi.
Forse perché sono cose forse difficili da gestire.

E’ difficile districarsi tra i vari problemi concreti della vita e scorgere dei margini sufficientemente ampi per poter pensare a qualcos’altro che non sia sbarcare il lunario, pagare le bollette, andare d’accordo con i figli, non litigare con la moglie e chi ne ha più ne metta.
Perché quindi perdere tempo a pensare a cose astratte e considerate da tanti inutili perdite di tempo?

Però posso dire per la mia esperienza di vita che quello che conta in fondo è solo il proprio spazio interiore.

Quanto più è ampio per accogliere l’altro, per accoglierti, tanto più sono sereno, tanto più mi sento sicuro, tanto più mi sento forte, tanto più vivo in profondità, tanto più ti voglio bene.

La profondità comunque costa.

Costa che cosa?

Costa dolore.

Il dolore è il prezzo da pagare per vivere una vita a cui si permette di avere un significato.

giovedì 23 novembre 2017

Sul dolore




Sul dolore 
*

Melanie Klein, una celebre psicoanalista del secolo scorso, nella sua teoria dello sviluppo infantile ha coniato ed elaborato i termini e i costrutti di 'posizione schizoparanoide' e 'posizione depressiva'.

'Posizioni', non 'fasi' di sviluppo, ad indicare che esse sono stati della mente che possono alternarsi e aver luogo nel corso di tutta la vita, non solo nel periodo evolutivo (cioè non solo nell'infanzia).

La 'posizione schizoparanoide' di Klein, la posizione più regredita e arcaica, può essere associata al concetto di pulsione di morte di Freud, Thanatos, mentre la 'posizione depressiva', posizione caratterizzata da processi e difese intrapsichiche più evolute, si può associare al concetto freudiano di pulsione di vita, Eros.

Quindi morte, distruzione, annichilimento, involuzione, regressione, arretramento, VERSUS vita, creazione, entusiasmo, avanzamento, progressione, evoluzione.

Per poter passare dalla 'posizione schizoparanoide', distruttiva e mortifera, e accedere alla 'posizione depressiva', propria dell'elaborazione del lutto, è necessario aver introiettato, cioè immagazzinato dentro di sé, un bagaglio sufficiente di 'oggetti buoni'.

In psicoanalisi per 'oggetto' si intende un'entità attiva nel mondo interno (cioè dentro la nostra mente) percepita concretamente, quasi una persona in grado di amare, odiare, distruggere, divorare, invidiare. L''oggetto' è una persona concreta che è stata introiettata, cioè assunta internamente ad esempio; la mamma, il papà, la nonna, il nonno, che da mamma, papà, nonna, nonno esterni diventano mamma, papà, nonna, nonno interni e che ci accompagnano per tutta la vita e ci sostengono nei momenti di difficoltà. Questi 'oggetti interni' però possono assumere valenza sia positiva sia negativa. E infatti si parla di 'oggetti buoni' e 'oggetti cattivi'.     


Appare evidente che se ho avuto dei genitori sadici questi 'oggetti' interiorizzati non potranno che essere sadici e quindi entreranno in conflitto con il naturale impulso vitale di ognuno di noi alla maturazione individuale, all'evoluzione, al benessere, alla crescita.       
Gli 'oggetti' cosiddetti 'primari' sono la mamma e il papà (o chi ne ha fatto le veci nella prima infanzia) e per 'ambiente primario', si intendono le persone significative e le relazioni familiari che hanno costituito il nostro mondo nei primi anni di vita.


In parole povere avere dentro di sé un carico sufficiente di 'oggetti buoni' significa avere un rifornimento interiore sufficiente di cose buone che coccolano dolcemente l'anima, orsacchiotti pelosi e teneri, carezze della mamma, rinforzi positivi del papà, le attenzioni affettuose dei nonni, le fiabe buone che tengono lontani gli orchi ecc. ecc.

Purtroppo molte volte capita che gli orchi, gli 'oggetti cattivi', incubi e spettri interiori, i quali come gli 'oggetti buoni' sono presenti nel nostro inconscio, siano preponderanti.


Questa preponderanza di "male" impedisce al "bene" di fare il suo corso naturale verso una vita armoniosa, gioiosa, colma d'amore, di dolcezza, di gentilezza, di trasparenza.

Una preponderanza di 'male' porta inesorabilmente alla malattia, psichica o fisica che sia.
Una preponderanza di 'bene' al massimo porta a una lesione.


Lesione e malattia non sono sinonimi.

Una persona può essere lesa, ma non malata.
Mi viene alla mente come esempio attuale Alex Zanardi.

Se gli 'oggetti cattivi' sono preponderanti vince la perversione, il nascondimento, la paura, l'incertezza, il buio, il vuoto, il deserto dell'anima.

Se percepiamo un malessere astratto, un qualcosa a cui non sappiamo dare un nome dentro di noi, un qualcosa che sembra far andare tutto storto nella nostra vita, se sentiamo che ci manca qualcosa, o peggio siamo portatori di sintomi gravi quali angoscia, ansia, panico, delirio ecc. ecc., beh allora significa che qualcosa nel nostro processo evolutivo, nella nostra infanzia, è andato storto.       

E' probabile allora che ci stiamo difendendo, che abbiamo gettato lontano o nascosto gli orsacchiotti teneri, la dolcezza, la tenerezza e che abbiamo dichiariamo guerra al mondo. 
O può anche essere che dolcezza, tenerezza e amore non ne abbiamo mai ricevuti.


In questo caso amore, tenerezza, dolcezza, sono parole vuote, miraggi, aneliti, simulacri che urtano un cuore ferito e straziato, e fanno sorgere sentimenti di invidia e incredulità. 

Crediamo che se non ce li abbiamo, se non li sentiamo dentro di noi, essi non esistono e sono soltanto uno specchietto per le allodole.      

E successo invece che questi 'oggetti buoni' non li abbiamo ricevuti quando era il momento giusto. Quando ne avevamo diritto. Quando eravamo dei bambini indifesi e bisognosi di tutto, ma soprattutto di una cosa: di amore e di affetto.


Allora vince la ferita narcisistica, vince il bambino ferito, incattivito dalla mancanza d'amore, che diventato (apparentemente) adulto deve rivendicare i torti subiti.

Ma in questo modo, dichiarando guerra al mondo, in realtà non vince nessuno e perdono tutti.


Avremmo avuto bisogno di tanti 'oggetti buoni' da introiettare.         

Avremmo avuto bisogno di tenerezza, di carezze, di dolcezza, di amore.


Così la bilancia tra 'oggetti buoni' e 'oggetti cattivi' penderebbe dalla parte degli 'oggetti buoni' e auspicabilmente potremmo lasciare la 'posizione schizoparanoica' e accedere alla 'posizione depressiva' citata da Klein. Potremmo vivere il nostro dolore in una mente integrata e non rotta come un melone caduto a terra dal camion incidentalmente passato sopra una buca, piangere per le cose non ricevute.

Potremmo elaborare il lutto della perdita o nel peggiore dei casi, della mancanza assoluta di affetto, di mamma e papà, e riniziare o iniziare, forse per la prima volta, a vivere nella gioia, nella pienezza, nell'amore.

E invece ora ci troviamo in un bisogno spasmodico di sesso sregolato, di sesso nascosto che lascia solo vuoto.  

Ci troviamo ad aver bisogno del tradimento celato ad un partner che non ci soddisfa ma al quale comunque rimaniamo aggrappati.      
Ci troviamo ad aver bisogno della perversione nei rapporti.
Ci ritroviamo ad essere ammaliati dalla seduzione, nostra e dell'altro o dell’altra.
Ci ritroviamo ad essere schiavi della pornografia.   
Siamo morbosamente attratti dalle scene di sangue che quotidianamente i media ci propongono, e più o meno falsamente pensiamo tra noi e noi, "povera gente", anche se in realtà non proviamo compassione, ma piuttosto una vago senso di eccitazione e sadismo.


Eppure avremmo un gran bisogno di trasparenza, di autenticità, di chiarezza, di dolcezza.

Avremmo un gran bisogno di amore.
Avremmo bisogno di un alleato che ci ascoltasse e che ci aiutasse in un percorso autentico per attraversare il nostro dolore più antico, molto probabilmente mai rivelato nemmeno a noi stessi.


Avremmo bisogno di uno spazio libero, protetto, cullato da una dolce ninna nanna, dove poter ritornare bambini e piangere le lacrime che allora, quando era il tempo, non abbiamo potuto vivere, perché non c'era nessuno pronto ad accoglierle.

Tutto ciò non si può fare da soli, ma solo attraverso un profondo percorso interiore, doloroso e cosparso di spine che lacerano l'anima, ma che alla fine fa bene, all'interno di un setting psicoanalitico ben strutturato e protetto.

Per ricollegarsi ai concetti freudiani di Eros e Thanatos che ho espresso prima, un'analisi riuscita favorisce Eros, non Thanatos. 

Quindi un'analisi riuscita porta verso la crescita, l'amore, la dolcezza, l'affetto, la tenerezza, la responsabilità adulta.      
Non porta certo verso la morte.



---

Cristiano Pedersini