lunedì 30 dicembre 2013

"Clanfe"


Nel dolore ci si può tuffare. 
A Trieste i ragazzini in estate vanno ai Topolini e si pavoneggiano di fronte alle ragazzine di turno, esibendo la loro bella coda di tuffi.

Il nome di questo centro balneare deriva dalla sua forma, che rimanda alle orecchie del famoso topo.

Vince chi schizza più in alto.

Ero bravo nei tuffi. 

A Trieste il tuffo che va per la maggiore è la cosiddetta “clanfa”.
Ci si tuffa a panciata, raggomitolando le ginocchia al petto, per evitare di lasciarci le budella e appena in acqua, ci si distende per accentuare l’ondata verso l’alto.
Si capisce subito nei timpani, se lo schizzo è stato all’altezza delle aspettative.

Le “clanfe” in realtà non mi sono mai andate a genio.
Ho sempre preferito le bombe. Non quelle americane, in cui devi stringere a te entrambe le ginocchia, e rischi di spaccarti il fondoschiena … quelle sono robe da infanti cicciobomba moccolosi, e anche poco eleganti da vedere.
Piuttosto, mi sono spesso cimentato nelle bombe, in cui finisci a gambe distese in avanti, e una volta in acqua, appena sotto il pelo, con un colpo di reni
, dai l’impeto al fiotto d'acqua verso l’alto.

Nei timpani senti un bel rumore sordo, come un pugno, un’onda che si infrange su uno scoglio.

Nel dolore ci si può tuffare.

Coraggio, dai trattieni forte il respiro, vai giù fino a toccare il fondo.
Coraggio ragazzo.
Poi, puoi solo risalire…. o annegare.

Eravamo giovani e inesperti e guardavamo il sole all’orizzonte.
Qualcuno di noi era spensierato, qualcuno meno.
Poi arrivava settembre, le rondini iniziavano a volare via, e un’altra estate era passata.

Le mie estati spensierate, non sono state tante.
Forse solo in un paio, ho potuto fare l’adolescente.

La vita è un viaggio di cui a volte, quasi sempre, non siamo consapevoli.
Camminiamo come i cavalli che tirano il carro, con i paraocchi e il sacco appeso dietro, per non sporcare la strada con el nostre sporcizie, di cui vergogniamo.

Abbiamo paura.

Penso che a volte non vorrei vedere, e non vorrei sentire.
Anelo a un interruttore, per chiudere la luce e dormire, nel sonno mediocre e inutile dell’inconsapevolezza.

La vita è fatta di conflitti, di doveri, di limiti. A tratti di luce.

E poi ripiomba il buio.

In ciclo perenne di pulsioni di morte e pulsioni di vita.

Ma del resto non c’è sole senza luna.

Vero amore mio?

Vie che si incontrano, vie che si dividono.

A volte il silenzio parla più delle parole. Anzi le parole a volte ingannano e fanno apparir banale quell’attimo di pausa e d'incertezza.
E’ in quel momento che se ci riesci, c’entri dentro e ti perdi per un istante. Lo vedi e ti attanaglia. 

Lui. Il dolore.

Non voglio perderti amore mio.

"Ragazzo, puoi voltarti indietro, annaspare, cercare la superficie e non ritornare più alla sponda del mare.
Per non annegare, per non soffrire.
Ma che vita avresti?"

Conflitto. Apro la luce, chiudo la luce.
Tic tac, tic tac, finche’ l’interruttore s’inceppa e le mani si rattrappiscono in una smorfia contratta, fatta di un sonno senza sogni.

Pausa.


Una parola, poi una frase, poi di nuovo il silenzio.

Il dolore arriva e avvolge, e ti trovi nel labirinto a cercare l’uscita.

A volte accadono cose strane. Le chiamano coincidenze, ma tu sai che non son tali. 

Invece ci sei tu. Sei parte di un tutto che ti si sta svelando.

Ho quindic’anni e sono li sul trampolino.
Ho il sole alto di fronte a me, e guardo l’orizzonte.
E’ strano, sono li, come tanto tempo fa, eppure ho la mente d iadesso, di trent’anni dopo.
Eppure sono li, in bilico su un trampolino sghembo, dei Topolini di allora.

Intorno non c’e’ nessuno.
E’ inconsueto, ma nemmeno tanto, perché è inverno.

Sono solo.

Solo io e il mare.

Il trampolino è scivoloso, ma ho la forza della giovinezza….. E penso.

No, ormai non c’e’ più incertezza.

Mi tuffo.

Eccomi amore mio.

lunedì 4 novembre 2013

Pensieri autunnali: i lutti delle fantasie

Le fantasie svaniscono nel tepore del tempo
Ali socchiuse
Resta il sciogliersi lento come un zucchero a velo di malinconia
Dici di rinascere per un altro momento
Oltre il lutto c'è nuova vita
Spero, speri
Domani

mercoledì 16 ottobre 2013

Sul narcisismo

Guidavo lo scooter, il che per me e' spesso fonte di riflessione, zigzagando tra le buche della strada in fase di asfaltatura. 
Stanno asfaltando le strade di mezzo altopiano carsico triestino. La prima fase dell'asfaltatura corrisponde all'asporto dell'asfalto vecchio, o vecio per dirla come si viene spontaneo da queste parti. Dopo rimangono delle striature, dei solchi, che andando in scooter fanno un po' traballare l'equilibrio del mezzo.

E' leggermente pericoloso.

Per far traballare un equilibrio spesso ci vuole poco.
Basta toccare il narcisismo.
Un narcisismo ferito.
Diviene facile allora cadere.
Le escoriazioni bruciano.

Il narcisismo e' facile riconoscerlo.
Per esempio quando ti tagliano la strada e dalla pancia viene fuori un moto di rabbia tagliente nei confronti dell'imbecille di turno.

E' narcisismo.

Riflettevo sullo scooter, che dal mio punto di vista, la questione del narcisismo puo' risultare di difficile comprensione e puo' essere fonte di fraintendimento comunicativo.

Ho sentito spesso dire che l'egoismo a volte e' necessario.
A mio parere si confondono i termini. Non e' l'egoismo a essere necessario, ma l'affermazione di sè. 

Sono due cose diverse.
Una persona che non ha potuto svilupparsi, per i casi della vita, attraverso la propria affermazione, sara' stato deprivato nei suoi bisogni.
Cio' comporta una ferita narcisistica. Ferita, che nel tempo questa persona cerchera' di riempire come puo'.
Spesso attraverso un ipertrofia dell'immagine di sè e uno svilimento dell'altro.

L'affermazione di sè e' altra cosa.
Significa essere capaci di dire "io esisto e questi sono i miei bisogni".

Solo la soddisfazione di questi bisogni, che prima vanno riconosciuti, puo' portare ad uno sviluppo della persona e a una sua crescita.
Altrimenti e' solo finzione intellettuale.
Come sapere a memoria la Bibbia e per questo pensare di essere credenti.

Speriamo che domani finiscano di asfaltare la strada.

venerdì 7 giugno 2013

Arte e tecnica

L'arte dovrebbe essere, nell'essere umano creativo e libero da condizionamenti, la naturale conseguenza della tecnica. Ogni tecnica, se compresa, approfondita, introiettata ed elaborata, diviene cosi' il veicolo di contenuti profondi. Anche la matematica diviene arte, non meno della pittura o della fotografia. La persona creativa vede percorsi diversi e attraverso di essi giunge ed elabora una meta, un concetto o un'espressione nuovi, che prima non esistevano. Sono nuove visioni che spostano in avanti l'orizzonte dell'umanità.

sabato 25 maggio 2013

When

when there is an uncharted territory around you,
when you have a thrill in your belly,
when you don't want a destination but only a path,
when you see and believe in the signs,
often ephemeral,
that seem to show you the way just enough before the breeze will  carry’em  away,
when touched, watching a sunset, you feel one with the sun
descending into the sea,
then you are alive,
and no matter what, no matter when.


----------------------------------------------------------

(Quando

Quando il territorio intorno è inesplorato,
quando senti un fremito nella pancia,
quando non cerchi un meta, ma solo un percorso,
quando vedi e credi nei segni,
spesso effimeri,
che sembrano li apposta per indicarti la via quel tanto che basta
prima che la brezza li porti via,
quando commosso guardi un tramonto e ti senti tutt’uno con il sole
che cala sotto il mare,
allora sei vivo
e non importa come, non importa quando.)

lunedì 13 maggio 2013

Psicometria



Il nome gia’ di suo appare sinistro. Per la maggior parte degli studenti di psicologia la psicometria e’ un incubo da studiare velocemente, da buttare a testa bassa sui fogli d’esame e da dimenticare il prima possibile. Tabelle, statistiche, chi quadrati e universi bernoulliani. 

A me la matematica e la statistica ad essere sinceri piacciono e affascinano.
Quello che mi piace di meno è che quando la statistica viene applicata alla psicologia la persona diventa un individuo. Un soggetto-oggetto. Cioe’ un membro indistinguibile dagli altri, detentore di un insieme di caratteristiche comuni che lo specificano e categorizzano.
Insomma un oggetto standardizzato con deviazione standard uno e media zero nel sessantotto per cento dei casi. 

Certo la standardizzazione offre molta sicurezza e permette di categorizzare bene. 
Questo appare prioritario dal punto di vista scientifico. Il dato se non e’ oggettivo incute per lo meno perplessita’ e diviene aberrante.

Ma cosa significa oggettivita’? 

Per le scienze naturali significa che un fenomeno e’ verificabile da un numero considerevole di individui. Se il fenomeno e’ anche riproducibile diviene analizzabile e controllabile. 
Un esperimento scientifico deve poter essere riprodotto. 
In questo modo si possono dedurre teoremi e leggi che permettono di capire e prevedere il mondo che ci sta intorno. Si possono fare inferenze, trovare causalita’ e dipendenze tra i fenomeni. 

La scienza del resto si contrappone alla magia. Guai se non ci fosse.

Il problema sta sempre negli eccessi. Voler, in una sorta di riduzionismo estremo, incasellare tutti gli eventi umani in una serie ordinata di righe e colonne, fa si che se ne perda la complessità e le sfumature. E’ il caso della psicologia. 

La mente umana e’ certo regolata da leggi. Come dire, se mi dai dello stronzo io mi risento. E questo e’ uguale per tutti, o quasi. Se mi dai una carezza io sono felice. E questo e’ di nuovo uguale per tutti o quasi. 

Ma la psicologia, diversamente dalle altre scienze naturali, ha a che fare con la persona. Certo anche la medicina ha a che fare con la persona, ma se la medicina si occupa principalmente della struttura, dell’hardware, la psicologia si occupa prevalentemente del software, della funzione. E’ ovvio che la funzione non puo’ esistere senza una struttura. 

Ora dal mio punto di vista la funzione, il software, la mente, non puo’ essere oggettivata. Perche’ la mente si rivela e si scopre attraverso una relazione tra me e l’altro. Tu e io. E ogni relazione e’ unica e irripetibile. Il fatto stesso di descriverla a un terzo che non ne fa parte la distorce. 

La relazione e’ sempre soggettiva. 

La soggettivita’ fa paura perche’ pone di fronte alla responsabilita’. Nella relazione ci sono io in prima persona, non ci sono, o per lo meno non ci dovrebbero essere, schemi a cui poter attingere o categorizzare. La necessita’ di categorizzare deriva dall’insicurezza e dalla paura dell’ignoto. Vedi DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders).

La scienza del resto nasce per spiegare l’ignoto. 
E’ uno dei modi di conoscenza e ha l’indubbio merito di sfidare la superstizione e la magia. L’importante pero’ e’ essere aperti all’esperienza e alla voglia di conoscenza cercando e coltivando dentro di se la liberta’ di esplorare anche privi di una griglia di riferimento. 
E’ piu’ difficile certo, ma e’ il camminare per quei sentieri il vero terreno dell’esploratore. E ognuno di noi, volenti o nolenti e' esploratore unico della sua vita.

La statistica, una volta imparata, almeno in psicologia, e’ meglio lasciarla alle retrovie.

martedì 23 aprile 2013

Apnea

Ho l’immagine nella mia mente del mare blu scuro che mi stava addosso incutendomi timore. Stavo a circa 8 metri di profondità in una delle poche immersioni in apnea che ho fatto in vita mia.

Li sotto si è un’altra dimensione. 

Ci si trova immersi letteralmente nella solitudine. Soli con se stessi e il mare immenso che grava sopra.

Il sole si intravvede oltre la superficie e riverbera i raggi a seconda delle onde. Ci si sente piccoli mentre la vastità è intorno. Quello che conta sono i propri polmoni e niente più.

Solo arrivare fino a li sotto non è facile. 

Ci vuole un po’ di allenamento. Ci si rilassa in superficie, si prende una buona boccata d’aria, poi lentamente ci si immerge con delle pinnate lente e progressive, senza frenesia, compensando la pressione nelle orecchie.

Qui da noi, nell’alto Adriatico, a Trieste, il mare è spesso torbido, non scorgi il fondo e quindi è un po’ un’immersione alla cieca, nella nebbia delle alghe e del limo sospeso. 

E non sai quanto manca ad arrivare al fondo. 

Laggiù, tra la sabbia, i ciottoli, e i ricci di mare,  ci trovi i canestrelli. 

Li devi un po’ cercare e dipende dalla zona. A volte trovi un banco di sabbia in cui sono numerosi, a volte per trovarne uno devi immergerti tre volte.

Poi, la sera quei mitili gratinati li trovi buonissimi perché portano dentro di se la fatica della ricerca e la soddisfazione della raccolta.

Non hanno lo stesso sapore di quelli comprati facilmente al mercato.
Andare in profondità, nel mare come nella vita, costa fatica e richiede motivazione.

giovedì 11 aprile 2013

Gruppi, personaggi e discussioni


Nei gruppi ci sono delle dinamiche che un conduttore efficace deve cogliere e dirigere secondo la finalità del gruppo.

Vi si trovano i personaggi più disparati e spesso è opportuno che di fronte ad alcune persone provocatrici, il conduttore non ceda e non indietreggi dalle sue posizioni. Che non propenda per le lusinghe di un accordo, non ingentilisca la situazione per renderla meno tagliente e non ceda a patti.

Alcuni giorni fa ho partecipato a una serata interessante, in un gruppo di discussione, in cui sono stati trattati argomenti importanti come l’autorità, la differenziazione dei ruoli, l'oggettività. Come spesso succede era presente una nota stonata. Una persona che come una corda di una chitarra non riusciva ad accordarsi. Non c’è LA e diapason che tengano in certi casi. Con alcune persone questi ausili non funzionano. In quella sede più che concentrarmi sulle singole parole provocanti e sulla voce apparentemente dolce e armoniosa della bella Sgarbi di turno mi sono concentrato sulle sensazioni che la situazione mi provocava. Non so come avrei reagito se fossi stato io il conduttore provocato. Avrei reagito con fermezza? Avrei ammorbidito la situazione?

Dai gruppi imparo sempre.

Sono divenuto più consapevole che il bisogno di calmare gli animi dipende da un’incapacità di gestire il conflitto. Da una propria debolezza interna. Nel mio caso, ma forse in quello di molti di noi, dalla necessità e dal bisogno di sentirsi accettati, di piacere. Retaggi infantili. Intolleranze genitoriali.

Dentro di me sento spesso questo bisogno di addolcire, di stemperare e ci sto lavorando. 

Ammorbidire, è la parola magica. Non va bene ammorbidire, addolcire per assecondare. È deleterio e crea esclusivamente una complicità perversa, spesso subita.

Anche oggettività è una parola magica.

L’oggettività non esiste e proprio il parlare e pretendere un’oggettività significa aggredire l’individuo e la persona, significa togliere significato al suo vissuto e alla sua realtà. Quella interiore.

Con l’oggettività il matto diviene un caso da DSM, non una persona con un preciso vissuto che ne ha determinato una patologia.

Con l’oggettività della psichiatria non si può dare spessore alla vita intima del paziente, ma egli diviene un numero, un borderline, uno schizofrenico, uno psicotico, un ossessivo, un nevrotico, identificabile attraverso i sintomi e niente più. Perde il suo nome, la sua infanzia, i suoi genitori, la sua vita per divenire uno dei milioni di casi di una cartella clinica uguale a tante altre.

Il concetto di oggettività serve all’uomo per difendersi dalla paura.
Serve per classificare e quindi proteggere dall’ignoto. Serve per inserire il mondo in una griglia di decodifica dai binari già visti. Allora lo psichiatra quando si trova davanti un delirante fa una bella scaletta dei sintomi, sfoglia il suo manuale, trova la tabellina, incrocia colonne e righe e sceglie la definizione che più compete al caso. Facendo così però azzera la storia della persona e non entra nella sua profondità per capire cosa significa quel delirio. Il delirio diviene solo un comportamento indesiderabile e non espressione di una sofferenza acuta che andrebbe accolta, capita, diluita con una capacità di contenimento non comune.

È proprio la capacità di contenimento a mio avviso lo strumento principe e anche quello più difficile da sviluppare per chi si occupa di psicologico e che dovrebbe coinvolgere anche chi si occupa di psichiatrico.

Questa capacità non si apprende sui libri, ma piuttosto attraverso l’elaborazione del proprio dolore. Capacità di contenimento, responsabilità, preparazione, addestramento, selezione degli addetti.

Autorità, altra parola magica.
In questo periodo sento dentro di me un notevole cambiamento nei confronti dell’autorità. Con il concetto di autorità ho sempre avuto un rapporto travagliato. Direi insofferente.

Autorità.  Una parola, mille significati, attribuiti da mille soggetti diversi.

Uno dei motivi dei conflitti umani è il fraintendimento sul significato semantico delle parole.

Chi più, chi meno, tutti noi crediamo che il significato da noi attribuito a una parola sia universale. Dovrebbe essere così, perché se così fosse ci sarebbero certamente meno guerre. Ma il significato dipende dal vissuto e quindi, l’attribuzione di significato è soggettiva.
Allora autorità per alcuni diviene imposizione. Essi la traducono in autoritarismo, dittatura, monarchia, un bastone in testa a ogni tentativo di espressione libera. Per altri, che invece con l’autorità hanno avuto nel corso della vita, soprattutto nell’infanzia, un rapporto impastato con l’affetto, l’autorità significa guida, sicurezza, giusta regola e ruolo, paternità, maternità.

Attribuzioni di significato negative versus attribuzioni di significato positive. Eppure la parola è la stessa.

La ferita narcisistica in questo c’entra molto. 

Se nell’infanzia si soffre, si è vessati e c’è poco amore, molto facilmente, e probabilmente per difesa, si ergono dei muri di cemento armato per non soffrire più. Si diviene il centro del mondo, impermeabili e per l’appunto, narcisisti.
Ci si crede i migliori in tutto e si proietta nel mondo le proprie frustrazioni e la propria rabbia.
In realtà, tutto ciò serve solo a mascherare un’intima fragilità verso se stessi, ancor prima che verso il mondo. Una fragilità di cui spesso non si è affatto consapevoli.

Il mondo da adulti non è altro che la proiezione della famiglia d’origine, del proprio nucleo di relazioni primarie.
Almeno sino a un certo punto.
Almeno sino a quando non subentra, ovviamente non magicamente, una maggiore consapevolezza che permette di rielaborare e gestire.

Se c’é stato affetto e autorità, una mamma e un papà buoni e comprensivi, il mondo sarà colorato, caldo, accogliente, e le prove che la vita inesorabilmente presenterà saranno superate con più facilità, con maggiore serenità, competenza e maturità.
Ci sarà lo spazio per lo sviluppo di una vita armoniosa.

In caso contrario, in un ambiente ostile, con una mamma ed un papà freddi, distaccati, inospitali, malati, la pancia sarà fredda e gelida.
Il mondo diverrà  un luogo algido, un cristallo magari dall’aspetto perfetto, bianco perla, forse appariscente e maestoso, che però si frantumerà sotto l’azione di una brezza leggera.

Forse è per questo che a Trieste ci sono tanti matti.
Qui abbiamo la bora.

mercoledì 3 aprile 2013

Affetto


L’affetto lo senti nella pancia.
E’ un odore, un profumo, e’ il mondo che ti sta intorno e che ti preme.
Non e’ l’indifferenza, ne la frustrazione del non avere aiuto e nemmeno l’arroganza del non volere niente, ne l’autorita’ del despota.
L’affetto e’ vivere la vita abbracciando dentro i propri cari, quelli veri, giorno dopo giorno.
L’affetto e' saper volerti bene anche quando il mondo cerca in vari modi di buttarti giu’. Li fuori, tra i rovi e le spine, saranno in molti, a smontare, a denigrare, a mettere a dura prova le mura di una casa, che se non e’ solida, avra’ facilita’ a crollare. E spirerà il vento gelido, fino alle ossa.
L’affetto e’ il calore, e’ il profumo dell’infanzia, quando correvi dietro al cagnolino con la sua pigna in bocca, o accarezzavi un gattino che miagolava per l’assenza della mamma.
L’affetto era quando avevi gli occhi meravigliati dalla vita e dalle cose che erano intorno.
L’affetto finisce quando non ti meravigli piu’ e ogni giorno rimane uguale a quello dopo.
L’affetto scompare quando dai per scontato l’essere vessato, quando la normalita’ e’ l'essere invisibile, uno uguale ai tanti, quando voci da fuori, ma soprattutto da dentro,ti dicono ”guarda il mondo, e’ cosi’, e non c’e’ nulla che puoi fare”.
L’affetto puo’ rinascere quando dentro senti un’altra voce. Una sorta di do di petto che vuole uscire e piano piano ce la fa. Magari prima nel silenzio della tua intimita’. Poi sempre piu’ forte nella tua quotidianita’ e nel tuo modo di essere.
Allora riesci a gridare e a sentirti di nuovo vivo.
Pronto per un altro giro di giostra.

mercoledì 20 febbraio 2013

Accordi



respiro piano

c’e’ fumo di sigaretta che sale

e pensieri nel cielo

attimi di vita che volano

spirali tortuose e sottili

un lamento

un’atmosfera

una luce calda in penombra

poche note stonate

un sorriso

Il senso dell'abisso

L’abisso è una presenza assenza.
L’ abisso è subdolo. 
Mi guardo intorno. A volte è colore e gioia, altre è oscurità.
 
Nella sostanza però fuori è tutto uguale. Il mondo permane immutato.
Non è l’atmosfera che cambia, non sono i fiori o i frutti che si ridipingono, non sono le facce delle persone che si tramutano in nuove espressioni.
 
No. Il mondo non cambia. Rimane lo stesso con i suoi cicli e con il suo ritmo, secondo dopo secondo, minuto dopo minuto, mese dopo mese, anno dopo anno.
 
Chi cambia sono io. Chi cambia è mio mondo interiore.
 
Chi sono io?
 
Vedo spesso serpeggiare questa domanda nelle pagine dei siti internet della nuova era. La New Age.
L’era del vuoto esistenziale dove ci cerchiamo tutti, sperando di ritrovarci nei miraggi di una nuova luce o di una nuova disciplina meditativa, meglio se orientale dai sapori spirituali.
Spesso è solo uno specchio per le allodole fatto di promesse che non verranno mantenute. Di aspettative deluse, tenute celate per eludere un confronto col dolore.
Pagine su pagine scritte di nulla, vuote, immateriali. Evanescenti. Miraggi irraggiungibili professati da qualche guru, ascoltate da gente bisognosa.
L’abisso esiste e agisce. Sta sempre davanti o a fianco. E spesso è invisibile.
 
L’abisso è una percezione affettiva silenziosa e misteriosa.
Se diviene visibile si è una nuova dimensione. Uno squarcio nella terra stabile. Una crepa senza fine. Sono i fantasmi o gli incubi resisi concreti di un dormiveglia di primo mattino. E' un precipizio senza fondo. Una vertigine che fa tremare tutto.
 E’ catastrofe.
E’
  il senso di colpa che è stato iniettato nella prima infanzia. E’ conflitto tra il fuori e il dentro. Mani che abbracciano per contenere il nulla.
Davanti c’è solo rarefazione, vuoto, depressione, paradosso.
Il paradosso è voler sbarazzarsi dell’abisso girando la testa,  per non guardarci dentro. Paradosso è non confrontarsi con la paura del cadere mentre si sta già cadendo.
 
E’ lasciarsi attrarre dai miraggi facili, sperando di trovare in una felicità spicciola e a buon mercato una redenzione impossibile, perpetuata a forza di frustate sulla propria schiena, per illudersi di una liberazione e una leggerezza prive di spessore.
L’abisso non ha bisogno di bacchette magiche. Anzi, le schernisce e ci si diverte.
L’abisso del dolore ha bisogno di essere attraversato, con tutto l’orrore e la paura che ciò comporta. Una discesa e una salita nell’inferno, nel purgatorio e nel paradiso.
Il problema non è solo individuale, oggi è anche sociale.
 
Per il dolore non c’è spazio ne contenimento. Si elude così il bisogno di affetto, di calore, di contatto, di un'umanità alla deriva.
Così facendo ci si priva della profondità dell’esistenza e non si supera quel muro invisibile rappresentato dalla paura.

lunedì 11 febbraio 2013

Le Beatitudini - dal Discorso della Montagna di Gesù

« Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli » (Matteo 5,3-12)

domenica 3 febbraio 2013

Elezioni



Mia nonna era una partigiana.
Ho i ricordi dei suoi racconti. I soldati tedeschi erano spesso per la sua casa, seduti al tavolo con mio nonno calzolaio che riparava le loro scarpe. Gli incartamenti segreti dei piani e delle mappe partigiane erano poco distanti, nascosti nel tubo del camino, a pochi centimetri dal nemico.
Altri tempi.
Durante la guerra, mio nonno non seppe mai nulla di tutto cio’. Non l'ho mai conosciuto, ma me lo hanno descritto come un uomo buono, semplice e senza l'animo forte di chi si oppone.
I pantaloni li portava mia nonna. Noi nipoti, ma anche i figli, le dicevamo con affetto che era asburgica.
Effettivamente nel 1907 quando lei nacque, Trieste era austriaca  e sul carso non si parlava ne italiano ne tedesco, ma sloveno. Mia nonna l'italiano lo imparo' a 20 anni, anche se in realta' imparo' solo il triestino.
Forse e' per questo gran casino di razze e di lingue che Trieste si sente un po' meno italiana del resto d’Italia, con quell’aria un po’ snob da signora di mezz’eta’ che non vuole stare al passo con i tempi, preferendo che siano i tempi ad adeguarsi a lei.
La politica nella prima meta’ del novecento e in parte anche dopo, era stata importante. Era entrata nelle case, con i morti, le bombe e con il sangue. E tutto cio’ per le assurde ambizioni espansionistiche di pochi. Durante la seconda guerra mondiale morirono 50 milioni di persone e 6 milioni di ebrei.
Le masse si lasciano guidare dai leader senza spirito critico.
Oggi i leader cosa propongono?
A me sembra che i programmi oggi siano tutti sia uguali. Abbassare le tasse (solo in fase elettorale), rinnovare  il paese (si, ma come e in che senso?), dare priorita’ al lavoro (come?), rilanciare l’economia (di nuovo, come?).
In sostanza sono questi i contenuti di destra e sinistra. Anche se nessuno spiega come questi obiettivi si dovrebbero raggiungere.  Non c’e’ chiarezza.
La chiarezza e’ per gli intelligenti, quelli che sanno quanto fa due piu’ due, e che se gli dici cinque come oggi accade, si accorgono che c’e’ qualcosa che non va. Invece la societa’ oggi non ha bisogno di chiarezza perche’ la chiarezza fa male, fa pensare, fa diventare responsabili e fa fare delle scelte.
Fare delle scelte e’ difficile. E’ meglio delegare all’altro le decisioni importanti. Lasciarsi guidare per poi gridargli addosso che e’ colpa sua se le cose non vanno come dovrebbero.
Siamo la societa’ dei manifesti e delle pubblicita’. La societa’ delle veline in parlamento e in televisione. La societa’ dei grandi titoli e dei grossi sprechi. La societa’ dell’effimero e dei bamboccioni anche ad 80 anni.
 Nel 1944  cinquantuno persone furono impiccate dai tedeschi per rappresaglia alle scale del conservatorio di musica Tartini, in via Ghega a Trieste. Lo seppi dai racconti di mia nonna che era li e vide. Quella era la politica del Fuhrer. Una politica della guerra mossa da ambizioni personali, che poi diventarono nazionali e di un popolo intero, in un’ottusita’ di massa che e’ difficile capire e giustificare.
La massa deve essere guidata. Come e’ guidata la massa di gnu, che si vedono nei documentari, quando devono attraversare un fiume nella savana. All’inizio di fronte al fiume, la mandria composta da migliaia di esemplari si ferma, e’ tentennante, terrorizzata. Li davanti c’e’ la corrente impetuosa, l’acqua infestata dai coccodrilli, l’ignoto, ma basta che ci sia uno gnu piu’ temerario a fare strada ed ecco che tutto si sblocca e a centinaia iniziano a lanciarsi all’impazzata nell’attraversamento. Molti moriranno nell’impresa, anche calpestati dai loro compagni.
Gli occhi degli gnu mi hanno colpito.  Denotano il  terrore, ma una volta che si gettano nelle acque gli gnu vanno avanti, incuranti di tutto e di tutti nella lotta per la sopravvivenza.
Gli occhi degli gnu che attraversano il fiume assomigliano a quelli di tanti invasati che gridano nei cortei.
Il problema dello stare nella mandria e’ che da li in mezzo, non si puo’ vedere dove si sta andando. L’orizzonte e’ coperto e deciso da chi e’ in prima fila e alla mandria non resta che seguire. Se c’e un precipizio davanti al cammino, la mandria soccombera’ precipitando. Pochi si salveranno. Forse i primi se saranno lungimiranti e se non si lasceranno spingere dalla massa di chi segue.
La lotta per il potere e’ un fatto naturale. Nel branco di lupi c’e’ il lupo alfa che combattendo con altri pretendenti, ha conquistato il suo ruolo di leader.
 Il lupo alfa e’ l’unico che si puo’ accoppiare, decide le sorti del branco, lo protegge e lo guida. E’ un fatto di sopravvivenza.
Il leader e’ necessario a guidare un branco. Un leader deve pensare al bene della sua comunita’, alla sua sopravvivenza  con senso di responsabilita’, di comando, senza tentennamenti.
 Tra noi umani l’aspetto della leadership, che negli ultimi anni sembra sia stato maggiormente enfatizzato,  pare sia solo l’aspetto dell’accoppiamento a discapito di altri. Il bunga bunga ha preso il sopravvento.
Come a dire, voglio fare il leader, ma mi prendo solo gli onori mentre gli oneri non mi interessano, non fanno per me. La responsabilita’, l’autorevolezza, buttiamole alle ortiche, sono cose antiche che nell’era moderna non contano piu’.
Abbiamo buttato alle ortiche anche i riti, le tradizioni che davano spessore. Cosi’ che oggi e’ possibile tutto e il contrario di tutto.
La classe politica oggi non puo’ che essere lo specchio della societa’. Una societa’ di bambini viziati, in cui si riesce a leggere in internet di gente che e’ frustrata perche’ la paga non basta per prendersi l’IPhone (giuro l’ho letto).
La societa’ dell’apparenza non si puo’ piu’ scontrare con la realta’ dell’esistenza.
L’esistenza e’ cruda. E’ seria. Richiede profondita’ e dolore per essere vissuta a pieno. Per avere senso. Ma dove si vede questa serieta’ oggi? Appena traspare in un contesto, in una situazione, la maggior parte di noi gira la testa dall’altra parte per non vedere e rituffare in questo modo la testa nell’illusione e nell’infantilita’.
Cosi’ la politica di oggi e’ infantile perche’ oltre ad essere specchio e prodotto della societa’ attuale, risponde ai bisogni di questa societa’. E i bisogni sono quelli di non pensare e non confrontarsi.
C’e’ il bisogno di delegare.
Come si fa altrimenti a spiegare il persistere sulla piazza politica di certi personaggi pluricondannati, l’elezione dei trota di turno senza arte ne parte? Come si fa a spiegare lo sciame di adepti che credono, nonostante la realta’ concreta sia ogni giorno sotto i loro occhi, alle parole del politichese, fatte di promesse irrealizzabili nel futuro e mai mantenute nel passato? Come si fa a capire l’elezione a eurodeputato di chi inneggia all’odio razziale e alla discriminazione. Come?
La politica aveva senso nel novecento. Avevano un senso le lotte partigiane contro i nazisti e contro il fascismo per la ricostruzione civile da un mondo di odio. Aveva senso fintanto che era mossa dalla responsabilita’ derivante da una societa’ sofferente,  umiliata dagli eventi e provata dagli stenti. La politica aveva un senso quando esistevano le persone, ridestate dalle ferite sanguinanti aperte dalla guerra, dai morti, dalla consapevolezza che la vita e’ effimera, e’ importante.
Il dolore ridesta gli animi, fa maturare, fa confrontare con la fragilita’. Oggi invece viviamo nella societa’ dell’anestesia.
Mia nonna era gemella come me. I tedeschi ammazzarono suo fratello, un capitano partigiano, l’ultimo giorno di guerra. Lo circondarono, gli spararono e lo lasciarono morire lentamente, agonizzante e dissanguato alla vista dei familiari.
Sono cose che rimangono dentro, segnano, alle quali non si puo’ girare dall’altra parte per non vedere. Sono cunei affilati conficcati nella carne a forza.
La politica ha avuto un senso nella ricostruzione dell’Italia, nel dopoguerra, fino forse agli anni settanta e ottanta. Poi ci siamo trasformati nella societa’ del benessere in cui tutto e’ dovuto.
Bisogna essere felici. E’ un dovere, un must come si dice oggi, e se non sei felice sei una persona frustrata.
Si confonde una pienezza vera, un senso di appartenenza, di affetto, di senso della propria vita, che comporta anche dolore, responsabilita’ e sacrificio, con il sorriso di chi va a fare una crociera.  Con l’allegria, spesso finta, di chi va in vacanza.
Tutto questo a me fa provare un senso di disorientamento e di vuoto.
La politica di oggi non mi interessa. Non guardo i telegiornali perche’ non ho tempo e perche’ non mi interessano i sensazionalismi. Leggo poco i giornali, solo la prima pagina ed in velocita’ e guardo poco la televisione perche’  troppi programmi richiedono la passivita’ e l’assuefazione.
Sono piu’ interessato alla condivisione. Amo l’autenticita’ oltre l’apparenza ed i cliche’. Odio l’ipocrisia e la falsita’. Non sopporto la superficialita’.
E’ per questo che non andro’ a votare.








sabato 19 gennaio 2013

L’epoca del narcisismo



Ultimamente non mi capita spesso di camminare tranquillamente e senza fretta per le vie della città.
Stamane invece avevo un po’ di tempo libero, e me ne sono andato a zonzo, senza fretta, tra le strade vuote di un sabato mattina precoce.
Ho osservato il tempo che cambia. Anche dall'orario dei negozi.
Le serrande una volta si alzavano molto prima, quando ora, sino alle 9 della mattina è quasi un deserto. Pochi pedoni e strade vuote.
Ho vissuto per molti anni nel Borgo Teresiano, a Trieste, e ho visto il mutamento degli ultimi decenni.
Strade chiuse al traffico, sempre meno facce slave, sempre più occhi a mandorla con i loro negozi spesso vuoti ma sempre aperti. Chissà come faranno.
Ormai nel centro della città non esistono più possibilità di parcheggio fuori dalle strisce blu.
Zona rossa, due euro all’ora o giù di li.
Solo quindici anni fa riuscivo a parcheggiare liberamente la macchina sul canale di Ponterosso, ormai  off-limit alle ruote che non siano coi pedali.
Forse è meglio così, come è meglio che non si possa più fumare nei locali pubblici. Come pure è meglio che da decenni non si veda più nessuno fumare nei programmi televisivi.
Tutto ciò non è una critica, semmai il semplice constatare di un’epoca che cambia, forse un po’ nostalgico, dai colori seppia, ma scevro da giudizio.
Il fumo, si sa, fa male, e anche stare troppo in un'automobile non è salutare.
Però di cose che fanno male ce ne sono anche altre. E molte. Spesso subdole e meno individuabili perché fanno parte di una cultura di massa strisciante, invisibile, che ti permea dentro in maniera subliminale, integrata in una visione che sembra essere l’unica possibile.
Di solito non mi fermo mai a parlare con i ragazzi di colore che vendono per strada.
Nella zona del Ponterosso ce ne sono tanti.
Spesso cambio marciapiede per non trovarmeli davanti e se ciò capita, li evito con un “No grazie!”, ruvido ed insensibile, quasi infastidito.
Oggi invece mi sono lasciato fermare da uno di loro.
Avrà avuto venticinque anni, con i denti malconci, un incisivo rotto, una faccia simpatica.
Voleva vendermi dei libri con il solito “Ciao amico!” d'introduzione.
E' da un po’ che sto pensando di come sarebbe affascinante raccogliere le esperienze di questi ragazzi, parlare con loro e magari scriverci un libro, invece di evitarli costantemente.
Così stamane oltre a comperargli dei libri, gli ho chiesto da dove venisse, come avesse fatto ad arrivare in Italia, il perchè si trovasse qui.
Era un senegalese sbarcato in Spagna, a Fuerteventura, dal Senegal, in uno dei tanti viaggi della disperazione che attraversano l’oceano e il Mediterraneo.
Mi ha raccontato che ne erano morti tanti durante il suo viaggio.
Una volta arrivato al centro di smistamento delle Canarie, è riuscito a raggiungere la Spagna continentale, dove si è fermato qualche anno e dopo è arrivato in Italia, dove, a quanto ha detto, si sta meglio che in Spagna.
Poche frasi, cinque minuti di conversazione, per gettare un’occhiata veloce in una vita che sta peggio della mia. E stamane a me, tutto questo ha fatto riflettere mentre guardavo le commesse pulire le vetrine e i primi pedoni iniziare la loro giornata.
Mi colpito il contrasto tra la vita di questo ragazzo di colore, e quella, mia immaginaria, di un passante che ho incrociato, dal vestito Armani, con la erre moscia e con al guinzaglio due carlini con il cappottino. Il divario da quella di una coppia ferma davanti una vetrina, a guardare l’IPhone di ultima generazione, o daquella di una signora che è scesa veloce dalla sua Audi in seconda fila, inveendo con chi le aveva suonato per farle notare che il parcheggio non era dei più felici. Il distacco di quell'esistenza di stenti, dalla vita degli habituè delle bettole di Ponterosso, bettole che ormai, da quando hanno messo quattro sedie e quattro tavoli alti sui marciapiedi, fanno tendenza e non si chiamano più bettole. Sono diventate alla moda e se chiedi un ottavo di vino rosso, ti guardano storto e ti reclamano nome, vendemmia, bouquet, anni di invecchiamento e soprattutto quindici euro per un bicchiere. Per finire, anche se potrei continuare quasi all’infinito, il contrasto tra la vita di questo ragazzo di colore e la vita dei molti di noi, che correvamo angosciati per i corridoi affollati dei centri commerciali, per non essere riusciti a comperare in tempo, tutti i regali per il Natale appena passato.
Insomma, quello che manca oggi, credo sia la maturità e una corretta dimensione di vita.
Il consumismo ha allontanato, ha fatto regredire le nostre menti, ha risolto la nostra esistenza al comperare quattro beni, il più delle volte inutili, che se non possiamo averli, allora ci sentiamo infelici e frustrati come quando eravamo bambini, e mamma e papà non ci comperavano il giocattolino tanto desiderato.
Abbiamo scambiato il desiderio con il bisogno.
Molti addirittura non sono affatto consapevoli dei loro bisogni.
Il bisogno è un qualcosa di profondo, di vitale, che è necessario poter riconoscere.
Il riconoscimento di un bisogno tende a far assumere delle responsabilità nella propria vita.
Delle responsabilità verso se stessi.
Tale riconoscimento può far soffrire perché fa emergere i nodi irrisolti, le lacune, le ferite anche antiche.
E’ di fatto molti si limitano alla percezione del desiderio, perché se questo non posso soddisfarlo, allora è sempre colpa di qualcun’altro.
E' necessario distinguere bene tra la parola “colpa” e la parola “responsabilità”.
La prima si usa spesso da bambini e, guarda caso, è usata moltissimo dai mass media e dalla gente comune. “Non è colpa mia, è colpa sua” dice a sua madre il bambino che ha rotto il vaso, indicando il fratellino.
Non è forse un qualcosa che facciamo spesso anche ora che siamo cresciuti? Cerchiamo sempre un capro espiatorio.
Invece la parola responsabilità è un’altra cosa. E' molto più impegnativa, molto più profonda.
Denota la dimensione adulta, la capacità di un’analisi matura della propria realtà interiore ma anche di quella del mondo esterno. Segnala la partecipazione attiva alla propria vita.
Ma la nostra è una società responsabile? Io credo fermamente di no.
La nostra è una società narcisistica che identifica con il possesso la pienezza di un’esistenza.
Tale possesso può essere di beni, di artefatti, ma anche di persone.
Tanti, per esempio, identificano con la parola amore un totale controllo sull’altro, in una distorsione completa della dimensione affettiva.
Il controllo è imperativo per chi ha paura. Una paura, non percepita, di sentirsi abbandonati, in balia degli eventi, soli.  
Per queste cose si fanno guerre, si uccide e si sacrifica.
Tante cose si fanno pur di non vedere la propria fragilità e trovarsi così di fronte ai propri fantasmi.
Oggi è l’epoca del narcisismo, della bellezza fine a se stessa, esteriore, priva di uno spessore capace di apprezzarne le forme, le sfumature e la complessità.
Dirà qualcuno che anche Michelangelo cinquecento anni fa amava la bellezza, e che non c’e’ niente di male in ciò, ma invero, la bellezza ha un senso profondo solo se si conosce la bruttezza e il sapore aspro della vita. Guardando i suoi Prigioni qualche anno fa a Firenze, sarei rimasto li incantato per ore e ore. Li ho trovati ancora più belli dello stesso David che era li a due passi. Quelle statue volutamente incomplete volevano rappresentare la difficoltà,  la fatica che deve fare l’uomo per liberarsi dal peso della materialità, la lotta esistenziale e la liberazione dello spirito e dell’arte dalle costrizioni della materia. Una liberazione che sarebbe avvenuta solamente dopo la morte. I vari gradi di finitura dei Prigioni rappresentano, così, diversi momenti dell’esaltazione di questo sforzo. Il Prigione più vicino alla completezza della forma in cui la liberazione dalla materia è quasi completata, è quello più vicino alla morte.
Già, la morte.
Non si può apprezzare la vita se non ci si confronta con la morte.
E cosa fa la nostra società? Relega la morte perché scomoda.
Certo, siamo bombardati quotidianamente dagli scoop televisivi con immagini crude di guerre e di delitti in diretta. Ma quella è la risposta ad una crescente domanda di morbosità che nasce proprio dall’asfissia inconsapevole dei bisogni di autenticità.
Però secondo me, la più alta forma di autenticità è il confronto con la propria fragilità di esseri umani, insita in ognuno di noi, che è proprio rappresentata dal confronto con la morte.
Ma se tale confronto viene negato forzatamente, relegato da una paura collettiva e inconsapevole nei meandri più profondi della mente, esso cercherà un varco e si manifesterà in superficie come può, e come sta facendo oggi, con la morbosità e con un crescente senso di vuoto, mantenuto spesso sotto la soglia di coscienza,  che viene affrontato da una frenesia collettiva verso il possesso o la distrazione.
Oggi si fa di tutto per apparire performanti, parola che io odio, ma spesso ahimè usata. Veloci, scattanti, attrezzati, preparati, aitanti, sorridenti, belli, abbronzati, dinamici, positivi, ottimisti, perfetti insomma.
Sarà tutto qui?
Cioè la vita si risolve a queste cose banali e superficiali scritte e lettere cubitali sui cartelloni pubblicitari e negli spot televisivi?
A pensare così, mi viene una grande tristezza.
Mi viene voglia di ritornare sulle ginocchia della nonna ,e farmi cullare come quando ero bambino.
Mi sorge il desiderio di ritornare ai natali della mia infanzia, quando scavavo con le dita il panettone per tirare fuori i canditi.
Mi viene voglia di ritrovare un po’ di calore negli occhi del mio prossimo e sento il bisogno di un abbraccio sincero a cuore aperto, senza vergogna e senza parole, solo silenzio.
Si, perchè il rumore copre, e a volte il silenzio esprime più delle parole.
Stamane infatti per le vie della città c’era silenzio, e questa tranquillità apparente mi ha fatto riflettere e mi ha permesso di pensare senza fretta.
Oggi viviamo nel rumore più assordante.
Ma nemmeno questo sarà un caso.