lunedì 17 marzo 2014

Riflessioni su Facebook passando per la savana e la foresta amazzonica


Su Facebook si da fiato alla bocca.
Il che se non diventasse un esercizio esclusivo andrebbe anche bene.
Potrebbe essere un divertimento e forse per alcuni, uno sfogo dalla routine e dai piccoli screzi della quotidianità.
Il problema inizia a delinearsi quando questo dar fiato alla bocca diviene il nucleo centrale di un modo di essere.
Corde vocali, o meglio dita sulla tastiera, impiegate per esprimere il nulla, vibranti solo di frustrazioni e urla al vento.
Urla a nessuno.
Spesso mi chiedo a chi scrivano veramente molti dei miei compagni di merende di Facebook.
A volte rimango allibito.
A volte nemmeno leggo, dopo aver visto fotografie di profilo improbabili, che avrebbero la pretesa di essere spiritose, ma spesso risultano solo un impietoso indicatore dello spessore intellettuale di chi le ha pubblicate.
Facebook è lo specchio della società.
Facebook è lo specchio del nulla che circonda molte persone.
Purtroppo.
Oggi sembrerebbe che tutti siamo più vicini, a voler considerare il numero delle possibilità comunicative che abbiamo a disposizione.
E’ solo un’apparenza effimera.
La tecnologia ha agito nel senso opposto. Più che unire, ha diviso.
Dal mio punto di vista la divisione e la distanza tra le persone, e nel modo di percepirci gli uni con gli altri, ha origini abbastanza lontane.
Probabilmente coincide con il boom economico del dopoguerra.
Il benessere, o per lo meno la fantasia del benessere e i miraggi di un paradiso a basso costo, hanno chiuso le porte alla disponibilità verso l’altro, e hanno aperto la strada all’individualizzazione di massa.
Si può dire che la comunità non esiste più o per lo meno il sentimento di comunità è molto poco sentito.
Pensavo a tutto ciò in questi giorni, meditando sulla percezione che può avere di se stesso e del mondo un membro di una tribù della savana o della foresta amazzonica.
In quel contesto, chiaramente l’identità del singolo si mescola in maniera molto maggiore con un’identità collettiva del clan, sono molto più chiari e delineati i ruoli, le responsabilità, i comportamenti leciti e quelli meno leciti.
L’agire di un membro della tribù ha chiare influenze su tutti i membri del gruppo, non solo sui membri della sua famiglia.
Il senso del privato in quei contesti deve essere notevolmente diverso da quello a cui noi siamo abituati.
Il termine collettività ha certamente un’altra valenza.
Potrebbe sembrare a prima vista che tutto ciò risulti in una possibilià di “essere” molto limitata.
Probabilmente invece, la chiara definizione dei ruoli e una ben salda cornice di riferimento sociale e collettiva, permette agli indigeni della foresta amazzonica o della savana, di vivere in maniera più rilassata e meno ansiosa il proprio tempo, nonostante quelle che a noi possono sembrare delle enormi privazioni sia fisiche, sia di gratificazione personale.
Facebook per certi versi può legare il suo successo alla voglia di fare comunità, di condividere, che è insita nell’essere umano.
Ritrovare una comunione e una condivisione, che spesso è difficile persino con le persone più vicine, è la speranza di molte persone.
I post che spesso si leggono, a volte pur sembrando solo una lunga lista di azioni banali che una persona ha compiuto nella giornata (ho fatto il bucato, ho appena mangiato un gelato ecc. ecc.), vengono inviati con la recondita speranza di sentirsi importanti per qualcuno.
Un qualcuno collettivo, che è riposto nella nostra fantasia.
Ma se da un lato c’è questo desiderio di comunicarsi, di inviarsi e rendersi visibili al mondo, dall’altro c’e’ il pudore e la privacy.
Se ci pensiamo è un controsenso.
Mai come in questo periodo storico si è dato rilevanza al concetto di privacy, eppure basta un click e di qualcuno conosciamo vita, morte e miracoli (anche se questi ultimi risulteranno probabilmente pochi).
L’individualismo porta aridità e vuoto perché come esseri umani, siamo predisposti per la collettività e la relazione.
E in effetti le società rurali, in cui le modalità di relazione sono più chiare e contenitive, e ruoli e passaggi evolutivi sono maggiormente definiti, presentano generalmente un tasso di disturbi psichici inferiore.
Se il disturbo psichico viene definito come una risposta a degli stimoli conflittuali se non addirittura paradossali, allora è evidente che in una società come la nostra, dove spesso i contenuti degli stimoli comunicativi e relazionali sembrano negarsi a vicenda (si pensi ad esempio alla politica dove messaggi palesemente falsi vengono fatti passare per sinceri e autentici), non è un caso che esso sia più frequente.
La mente ha bisogno di coerenza .
Un altro aspetto che probabilmente è legato al successo di Facebook è il voyeurismo morboso di sapere i fatti altrui ed entrare nelle loro vite.
Credo che questo aspetto sia legato alla difficoltà di entrare nella propria vita in profondità e quindi si cerca ossessivamente di entrare nella vita degli altri in modo virtuale.
E’ un po’ come l’atto di accostarsi al trapasso da testimoni passivi, accorrendo a vedere la morte altrui, per esempio come accade negli incidenti stradali, che richiamano spesso una gran folla di curiosi.
Zuckerberg ha avuto la fortuna più che il genio (anche se si dice che abbia rubato l’idea),di riuscire a condensare in un unico mezzo, Facebook, la risposta a tutti questi bisogni di una società malata.