martedì 23 aprile 2013

Apnea

Ho l’immagine nella mia mente del mare blu scuro che mi stava addosso incutendomi timore. Stavo a circa 8 metri di profondità in una delle poche immersioni in apnea che ho fatto in vita mia.

Li sotto si è un’altra dimensione. 

Ci si trova immersi letteralmente nella solitudine. Soli con se stessi e il mare immenso che grava sopra.

Il sole si intravvede oltre la superficie e riverbera i raggi a seconda delle onde. Ci si sente piccoli mentre la vastità è intorno. Quello che conta sono i propri polmoni e niente più.

Solo arrivare fino a li sotto non è facile. 

Ci vuole un po’ di allenamento. Ci si rilassa in superficie, si prende una buona boccata d’aria, poi lentamente ci si immerge con delle pinnate lente e progressive, senza frenesia, compensando la pressione nelle orecchie.

Qui da noi, nell’alto Adriatico, a Trieste, il mare è spesso torbido, non scorgi il fondo e quindi è un po’ un’immersione alla cieca, nella nebbia delle alghe e del limo sospeso. 

E non sai quanto manca ad arrivare al fondo. 

Laggiù, tra la sabbia, i ciottoli, e i ricci di mare,  ci trovi i canestrelli. 

Li devi un po’ cercare e dipende dalla zona. A volte trovi un banco di sabbia in cui sono numerosi, a volte per trovarne uno devi immergerti tre volte.

Poi, la sera quei mitili gratinati li trovi buonissimi perché portano dentro di se la fatica della ricerca e la soddisfazione della raccolta.

Non hanno lo stesso sapore di quelli comprati facilmente al mercato.
Andare in profondità, nel mare come nella vita, costa fatica e richiede motivazione.

giovedì 11 aprile 2013

Gruppi, personaggi e discussioni


Nei gruppi ci sono delle dinamiche che un conduttore efficace deve cogliere e dirigere secondo la finalità del gruppo.

Vi si trovano i personaggi più disparati e spesso è opportuno che di fronte ad alcune persone provocatrici, il conduttore non ceda e non indietreggi dalle sue posizioni. Che non propenda per le lusinghe di un accordo, non ingentilisca la situazione per renderla meno tagliente e non ceda a patti.

Alcuni giorni fa ho partecipato a una serata interessante, in un gruppo di discussione, in cui sono stati trattati argomenti importanti come l’autorità, la differenziazione dei ruoli, l'oggettività. Come spesso succede era presente una nota stonata. Una persona che come una corda di una chitarra non riusciva ad accordarsi. Non c’è LA e diapason che tengano in certi casi. Con alcune persone questi ausili non funzionano. In quella sede più che concentrarmi sulle singole parole provocanti e sulla voce apparentemente dolce e armoniosa della bella Sgarbi di turno mi sono concentrato sulle sensazioni che la situazione mi provocava. Non so come avrei reagito se fossi stato io il conduttore provocato. Avrei reagito con fermezza? Avrei ammorbidito la situazione?

Dai gruppi imparo sempre.

Sono divenuto più consapevole che il bisogno di calmare gli animi dipende da un’incapacità di gestire il conflitto. Da una propria debolezza interna. Nel mio caso, ma forse in quello di molti di noi, dalla necessità e dal bisogno di sentirsi accettati, di piacere. Retaggi infantili. Intolleranze genitoriali.

Dentro di me sento spesso questo bisogno di addolcire, di stemperare e ci sto lavorando. 

Ammorbidire, è la parola magica. Non va bene ammorbidire, addolcire per assecondare. È deleterio e crea esclusivamente una complicità perversa, spesso subita.

Anche oggettività è una parola magica.

L’oggettività non esiste e proprio il parlare e pretendere un’oggettività significa aggredire l’individuo e la persona, significa togliere significato al suo vissuto e alla sua realtà. Quella interiore.

Con l’oggettività il matto diviene un caso da DSM, non una persona con un preciso vissuto che ne ha determinato una patologia.

Con l’oggettività della psichiatria non si può dare spessore alla vita intima del paziente, ma egli diviene un numero, un borderline, uno schizofrenico, uno psicotico, un ossessivo, un nevrotico, identificabile attraverso i sintomi e niente più. Perde il suo nome, la sua infanzia, i suoi genitori, la sua vita per divenire uno dei milioni di casi di una cartella clinica uguale a tante altre.

Il concetto di oggettività serve all’uomo per difendersi dalla paura.
Serve per classificare e quindi proteggere dall’ignoto. Serve per inserire il mondo in una griglia di decodifica dai binari già visti. Allora lo psichiatra quando si trova davanti un delirante fa una bella scaletta dei sintomi, sfoglia il suo manuale, trova la tabellina, incrocia colonne e righe e sceglie la definizione che più compete al caso. Facendo così però azzera la storia della persona e non entra nella sua profondità per capire cosa significa quel delirio. Il delirio diviene solo un comportamento indesiderabile e non espressione di una sofferenza acuta che andrebbe accolta, capita, diluita con una capacità di contenimento non comune.

È proprio la capacità di contenimento a mio avviso lo strumento principe e anche quello più difficile da sviluppare per chi si occupa di psicologico e che dovrebbe coinvolgere anche chi si occupa di psichiatrico.

Questa capacità non si apprende sui libri, ma piuttosto attraverso l’elaborazione del proprio dolore. Capacità di contenimento, responsabilità, preparazione, addestramento, selezione degli addetti.

Autorità, altra parola magica.
In questo periodo sento dentro di me un notevole cambiamento nei confronti dell’autorità. Con il concetto di autorità ho sempre avuto un rapporto travagliato. Direi insofferente.

Autorità.  Una parola, mille significati, attribuiti da mille soggetti diversi.

Uno dei motivi dei conflitti umani è il fraintendimento sul significato semantico delle parole.

Chi più, chi meno, tutti noi crediamo che il significato da noi attribuito a una parola sia universale. Dovrebbe essere così, perché se così fosse ci sarebbero certamente meno guerre. Ma il significato dipende dal vissuto e quindi, l’attribuzione di significato è soggettiva.
Allora autorità per alcuni diviene imposizione. Essi la traducono in autoritarismo, dittatura, monarchia, un bastone in testa a ogni tentativo di espressione libera. Per altri, che invece con l’autorità hanno avuto nel corso della vita, soprattutto nell’infanzia, un rapporto impastato con l’affetto, l’autorità significa guida, sicurezza, giusta regola e ruolo, paternità, maternità.

Attribuzioni di significato negative versus attribuzioni di significato positive. Eppure la parola è la stessa.

La ferita narcisistica in questo c’entra molto. 

Se nell’infanzia si soffre, si è vessati e c’è poco amore, molto facilmente, e probabilmente per difesa, si ergono dei muri di cemento armato per non soffrire più. Si diviene il centro del mondo, impermeabili e per l’appunto, narcisisti.
Ci si crede i migliori in tutto e si proietta nel mondo le proprie frustrazioni e la propria rabbia.
In realtà, tutto ciò serve solo a mascherare un’intima fragilità verso se stessi, ancor prima che verso il mondo. Una fragilità di cui spesso non si è affatto consapevoli.

Il mondo da adulti non è altro che la proiezione della famiglia d’origine, del proprio nucleo di relazioni primarie.
Almeno sino a un certo punto.
Almeno sino a quando non subentra, ovviamente non magicamente, una maggiore consapevolezza che permette di rielaborare e gestire.

Se c’é stato affetto e autorità, una mamma e un papà buoni e comprensivi, il mondo sarà colorato, caldo, accogliente, e le prove che la vita inesorabilmente presenterà saranno superate con più facilità, con maggiore serenità, competenza e maturità.
Ci sarà lo spazio per lo sviluppo di una vita armoniosa.

In caso contrario, in un ambiente ostile, con una mamma ed un papà freddi, distaccati, inospitali, malati, la pancia sarà fredda e gelida.
Il mondo diverrà  un luogo algido, un cristallo magari dall’aspetto perfetto, bianco perla, forse appariscente e maestoso, che però si frantumerà sotto l’azione di una brezza leggera.

Forse è per questo che a Trieste ci sono tanti matti.
Qui abbiamo la bora.

mercoledì 3 aprile 2013

Affetto


L’affetto lo senti nella pancia.
E’ un odore, un profumo, e’ il mondo che ti sta intorno e che ti preme.
Non e’ l’indifferenza, ne la frustrazione del non avere aiuto e nemmeno l’arroganza del non volere niente, ne l’autorita’ del despota.
L’affetto e’ vivere la vita abbracciando dentro i propri cari, quelli veri, giorno dopo giorno.
L’affetto e' saper volerti bene anche quando il mondo cerca in vari modi di buttarti giu’. Li fuori, tra i rovi e le spine, saranno in molti, a smontare, a denigrare, a mettere a dura prova le mura di una casa, che se non e’ solida, avra’ facilita’ a crollare. E spirerà il vento gelido, fino alle ossa.
L’affetto e’ il calore, e’ il profumo dell’infanzia, quando correvi dietro al cagnolino con la sua pigna in bocca, o accarezzavi un gattino che miagolava per l’assenza della mamma.
L’affetto era quando avevi gli occhi meravigliati dalla vita e dalle cose che erano intorno.
L’affetto finisce quando non ti meravigli piu’ e ogni giorno rimane uguale a quello dopo.
L’affetto scompare quando dai per scontato l’essere vessato, quando la normalita’ e’ l'essere invisibile, uno uguale ai tanti, quando voci da fuori, ma soprattutto da dentro,ti dicono ”guarda il mondo, e’ cosi’, e non c’e’ nulla che puoi fare”.
L’affetto puo’ rinascere quando dentro senti un’altra voce. Una sorta di do di petto che vuole uscire e piano piano ce la fa. Magari prima nel silenzio della tua intimita’. Poi sempre piu’ forte nella tua quotidianita’ e nel tuo modo di essere.
Allora riesci a gridare e a sentirti di nuovo vivo.
Pronto per un altro giro di giostra.