domenica 20 dicembre 2009

Premio "Bellissima 2009"

Ieri sera, in occasione della cena di Natale e fine d'anno del Circolo Fotografico Fincantieri-Wärtsilä di Trieste, di cui sono socio, mi è stato assegnato il premio "Bellissima 2009". E' un concorso fotografico al quale partecipano le fotografie giudicate migliori, durante il corso l'anno, nelle serate dedicate ai tornei fotografici interni di bianco e nero e colore. In tutto, ieri sera, sono state presentate 50 fotografie, provenienti dalle dieci serate che il circolo dedica ai tornei: cinque fotografie selezionate durante ogni serata di torneo, tra una media di 30-50 fotografie.
Delle 50 le fotografie presentate la giuria, composta da tutti i soci presenti (eravamo una sessantina circa), ha selezionato e premiato una delle mie fotografie come la migliore, assegnandomi il premio "Bellissima 2009". Una grande soddisfazione ed un'emozione straordinaria, considerando l'eccellente livello qualitativo del Circolo Fotografico Fincantieri-Wärtsilä di Trieste, se non il primo, certamente uno dei migliori e più frequentati circoli fotografici in Italia, e l'alta valenza artistica dei suoi soci.
Qui sotto ho inserito le fotografie con le quali ho concorso ieri sera.


Ghost - premio "Bellissima 2009"


Gli amanti


Berlino 2009


Ghiacciai del Monte Bianco


La prigione

Cos'e' la fotografia?

Iniziai a fotografare circa vent'anni fa . Iniziai per caso, affascinato a quell'epoca più dalle bellissime attrezzature Canon di un amico, che dal potere espressivo che la fotografia possiede. Comperai una Olympus e mi gettai nella lettura assidua delle riviste del settore per addentrarmi piano piano nei meandri della tecnica fotografica. Più avanti passai anch'io a Canon, per concludere poi il mio esodo tecnologico nel paradiso felice di Nikon, di cui sono ancora adesso un assiduo sostenitore. Più per affezione comunque, che per oggettiva superiorità qualitativa. Ad ogni modo sono convinto che, per quanto sia gratificante il possedere un bel corpo macchina, corredato dai più svariati grandangolari e teleobiettivi, la fotografia non la fa il mezzo tecnico, ma il fotografo. Essa, prima ancora che dalla luce, nasce dalla mente, dalle corde emotive più profonde, dalla necessità che ognuno di noi ha di esprimere se stesso. O per lo meno è questa la valenza che io do alla fotografia. Penso così che lo sforzo principale, al quale il fotografo debba rivolgere la sua attenzione, sia quello di lasciare che a premere il dito sul pulsante di scatto, sia la pancia e non la testa. La fotografia diviene così un mezzo con il quale tento di esprimere in maniera autentica la mia vita interiore ed in questo senso diventa anche uno strumento di analisi per capirmi meglio. Osservando così le modalità di ripresa o le tematiche dalle quali sono attratto riesco a vedere meglio dove mi trovo nel mio percorso.

venerdì 11 dicembre 2009

Berlino, novembre 2009











mercoledì 9 dicembre 2009

Monte Bianco, agosto 2009






Je t'aime

Il mondo era appena fiorito di tutti i colori della primavera. I gerani sbocciavano uno dopo l’altro, l’erba cresceva di tenero verde nei prati, le piante di pyrachanta germogliavano e l’alba iniziava sempre prima la mattina.
“Ti ho sognato, ti ho intravisto, ti ho perso nuovamente, dove sei adesso?”
Come ogni giorno, dava inizio alla sua routine mentre i raggi del primo sole si stiracchiavano risvegliandosi.
La barba, la colazione, uno sguardo ai giornali via internet con le solite notizie consumate dalla noia di un film già visto, ma per lui apparentemente essenziali. Bisognava essere informati su quel che succedeva nel mondo.
Il suo motto preferito era “chi cerca trova” e nessuno aveva mai capito esattamente a cosa si riferisse. Nemmeno quei pochi conoscenti che lui chiamava amici, ma che alle spalle lo indicavano, a sua insaputa, come un tipo strano.
Vestiva solitamente di un giallo paglierino oppure a volte di un rosso mattone, aveva le sopracciglia foltissime che a malapena lasciavano intravvedere gli occhi e se ne stava un po’ curvo come a scrutare costantemente il terreno per raccogliere qualcosa.
“Chi cerca trova ed un giorno sarai mia. Ti accudirò, ti cullerò, ti metterò su di un trono da regina”
La primavera risvegliava in lui gli istinti primordiali e se ne stava in ufficio, davanti al suo computer, con gli occhi fissi sui numeri che scorrevano, ma con la mente impegnata nella sua ossessione.
“Non smetterò di cercarti. Sogno il tuo corpo pieno, rotondo, che profuma di mandorla. Ti vorrei qui, adesso, anche in ufficio, sulla mia scrivania, senza badare a nessuno, incurante delle occhiate indiscrete e delle conseguenze. Vorrei gustare la tua presenza dalla mattina alla sera, poco a poco, senza fretta. Come un amante perfetto.”
Passavano le ore ed i numeri sul computer. Uno dopo l’altro, ogni giorno, ogni anno e più il tempo scorreva, più lui diveniva impaziente. La sua fantasia avvolgeva tutto e si amplificava.
Era una bomba ad orologeria innescata per esplodere. Pericolosa.
Quel giorno la sua frenesia era arrivata al limite e sudava ancora più del solito, suscitando lo scherno più crudele dei colleghi, nonostante si asciugasse la fronte con i fazzoletti di carta che teneva vicino alla tastiera. Non riusciva più a controllare la sua mente ed il suo desiderio. La sua ossessione stava rompendo gli argini.
Fuggì via in anticipo dall’ufficio, ed iniziò uno dei suoi vagabondaggi in cerca di lei, come centinaia di altre volte aveva fatto assecondando i meandri delle sue fantasie, per i vicoli scuri delle vie del centro storico, nei vari locali che erano aperti dall’alba al tramonto, chiedendo di lei o se l’avessero vista o ne avessero sentito parlare, cercando istintivamente di non dare troppo nell’occhio per la sua natura schiva e prudente. Aveva il fiato accelerato e sentiva il cuore battergli forte in petto.
Però quello era il giorno dei giorni e quella mattina, quando si era svegliato, mai avrebbe potuto immaginare che la sua fantasia si sarebbe presto tramutata in realtà.
La incontrò quasi inaspettatamente, così come l’aveva sempre sognata per tutti quegli anni. Se ne stava eretta ed elegante, nascosta dietro una vetrata. Aveva 26 anni. Lui le si avvicinò frenando il suo impeto virile. Poi, di scatto, strinse forte il suo collo tra le mani, mentre iniziava a sudare sempre di più. In quell’attimo tutto si calmò nella sua mente perchè quell’impulso represso aveva trovato finalmente l’oggetto in cui sublimarsi ed un’estrema lucidità, calda e fredda allo stesso tempo, si impadronì di lui. Il tempo si era fermato. Ormai lei era sua. Per sempre.

Una bottiglia di Bordeaux Chateau Mouton Rothschild del 1982.

Lucciole di Natale


La musica suonava piano oltre il vento. Era una canzone natalizia che usciva da un carillon.

Lei ascoltava.
Stava seduta sul divano. Sola come sempre.
Fuori era buio e la neve era appena caduta.
Era una neve di pan di zucchero. Una neve velata.
Nella mente le si affollavano i ricordi.


Fuori dalla grande finestra contava le luci, che costellavano il paesaggio.

Erano le luci di Natale, come lucciole di una notte di mezza estate. Le lucciole della sua giovinezza che da tanti anni non riusciva più a vedere. Prati infiniti, ingranditi e belli nei ricordi dei decenni, pieni di puntini di luce in movimento, che danzavano nella sinfonia della natura notturna.


A volte, quella volta, tanti anni fa, ad osservarli, le sembrava di vivere nel sogno ed a difficoltà riusciva a scorgere il sottile confine che la separava dalla realtà della sua giovinezza.
Ora, adesso, le tante tante luci li fuori, che allora nella sua fantasia di bambina erano lucciole.
Le sembrava di volare, anche lei coperta di luce, con ali fragili, appena nate, attraverso tutti quegli anni che sembravano secoli.
La stufa crepitava, emanando un fuoco dolce e caldo.


Anna...


Il faggio dava la fiamma, mentre il rovere formava la brace e lei, come sempre, con la maestria dell’esperienza, aveva preparato la stufa mescolando le due essenze.
Ora stava seduta ad osservare il fuoco e ad assaporarne il tepore, mentre fuori i fiocchi di neve cadevano. Come voleva il Natale.

C’era silenzio nella casa.

L’albero di Natale della sua infanzia non conosceva l’elettricità, ne tanto meno le intermittenze. Era un albero vivo, fatto di elementi naturali, di ninnoli di legno colorato a mano e di candele.
Un albero fatto di miracoli.


La casa della sua infanzia era vicino ad una grande falegnameria.
Sentiva ancora nell’odore dei ricordi, il buon profumo del legno appena tagliato e rivedeva le ciglia colme di segatura del capomastro.
Lui, le regalava affettuosamente dei piccoli ritagli di legno, che il suo papà poi intagliava per le decorazioni natalizie di tanti anni fa.


Anna...


Quella sera era la sera dei ricordi. Era la notte di Natale. C’erano tante lucciole che roteavano, probabilmente nella sua fantasia, o chissà forse nella realtà, come tanti anni prima. Troppi anni. Troppi vissuti in un silenzio surreale.

Così, forse per il volteggiare candido di quelle fantasione lucciole che avevano rapito la sua mente, decise di scrivere une lettera che non aveva mai scritto.


Prese carta e penna.

All’inizio roteò titubante la penna tra le mani, ma poi, piano piano, sentì che da dentro qualcosa la trasportava, in un vortice di emozioni perdute ed ora ritrovate.
Ed iniziò a scrivere.

Cara Anna,
oggi sono qui sola, a guardare nella mia fantasia le comete della vita. Quelle che lasciano una scia di speranza nel cielo stellato per poi svanire, lasciandoci nell’incertezza di un loro futuro ritorno o addirittura nell’insicurezza della loro effettiva esistenza.
Mi rendo conto solo ora che la cometa più importante della mia vita sei stata tu. Avrei dovuto scorgere la tua luce quando ti avevo davanti e capire che eri  nata per illuminare la mia esistenza con la tua coda splendente.
Ma non avevo occhi per vedere, ne cuore per sentire.
Guardavo le tue tenere manine ed i tuoi occhi, chiedere un amore che non potevo darti perchè non l’avevo. Mi dispiace.
Più tu chiedevi e più mi rifiutavo. Più tu piangevi e più mi sottraevo.
Dal mio seno ti ho donato del latte inaridito e, solo ora me ne rendo conto, non ti ho dato affetto.
Per me l’importante era insegnarti una giusta direzione morale, un’educazione impeccabile.
Il mio mondo era rigido, fatto di pietra e di pilastri di cemento armato che non lasciavano vie di fuga.

Dei pilastri da scalare con le unghie che ho consumato in tutta la mia vita e che, alla fine, non mi hanno portato in cima.
Quando ti sgridavo e ti picchiavo perché non eccellevi in qualcosa, sfogavo la mia ira su di te. Eri tu l’unico essere vulnerabile su cui io allora potessi riversare la mia rabbia verso il mondo.
La mia frustrazione  in quei momenti trovava l’occasione di una via d’uscita concreta e giustificabile.  Non sono stata abbastanza forte per far fronte al mondo, ne ho mai avuto la forza per difenderti, per proteggerti, per amarti.
La via più facile ed indolore e stata credere che fosse il mondo a essersi messo contro di me.
Il destino con le sue dure prove.
Il destino a portarmi una gravidanza non voluta.
Il destino a dover lavorare di un lavoro umiliante.
Il destino a mantenere e dover crescere una figlia indesiderata.

Tu eri la mia colpa.
Anna...
Oddio quante parole mi sorgono adesso. Se solo avessi capito prima.
Ora sono qui a ripensarti, a ricrearti come quella figlia che, in fondo, non ho mai avuto e che solo adesso potrei amare. Qui, davanti a questo fuoco che devo tenere acceso per riscaldarmi il cuore. Durante la tua adolescenza non capivo la tua debolezza. Volevo la tua strada diritta e non accettavo le curve e i cambi di direzione che la tua età imponeva. Ti volevo risoluta e ferma, con una direzione già decisa.
Ti pretendevo quella che io non ero mai stata.
Ed or, mi chiedo, cosa resta?
Davanti a me il fuoco arde.
Tu, Anna, sei volata via non appena hai avuto la tua occasione. Con un semplice pretesto, quando hai trovato un minimo appiglio per prendere il volo da me e da quell’unico nido fatto di spine in cui ti avevo imprigionato.
Dopo anni di tormenti e di tornanti hai costruito la tua vita lontano da me.

Non ricordo nemmeno più l’ultima volta in cui ti ho vista.
Però, ce l’hai fatta. Sei riuscita a vincere.

Anna, abbiamo ancora qualcosa da dirci?
In fondo, forse solo io vorrei dirti ancora qualcosa. Vorrei averti lasciato qualcosa di me. Vorrei averti lasciato qualcosa di buono da porarti nel cuore.

Me ne rendo conto adesso che posso volerti bene. In questa notte di Natale del 1975.
Ti dico solo questo Anna: perdonami.

Tua madre.

Posò la penna e con perizia, quella che l’aveva contraddistinta per tutta una vita, piegò la lettera e la mise nella busta già indirizzata.
Lasciò la lettera sul tavolo e si distese sul divano. Di fronte al fuoco. Chiuse gli occhi, il suo respiro si fece profondo e lento, sempre più lento e due ultime lacrime di gioia rigarono le sue guance. Spirò così, impercettibilmente e serenamente, sola, nel silenzio rotto dal crepitio della legna che ardeva.

 

Fuori la neve continuava a cadere. Teneri fiocchi si univano l’un l’altro per formare fiocchi sempre più grandi e sempre più bianchi.
Sembrava, a chi l’avesse visto, uno scenario surreale. I fiocchi cadevano lentamente, mentre intorno roteavano tante lucciole. Milioni di lucciole, lucciole vere, donavano la loro luce al miracolo del Natale illuminando il presente, il passato, il futuro.
Erano le lucciole di Natale.


La vite

Sono nata dalla terra nuda frustata dal vento.
Dalla collina osservo il mare dove la spuma delle onde si intreccia con il bianco candido delle nuvole e nelle sere d’autunno assaporo il rosso fuoco del tramonto all’orizzonte.
Vivo tra cielo e terra.
Affondo le mie radici nella tradizione per spingere le mie fronde in alto, come ad alzarmi in volo.
Aspetto l’estate con impazienza per poter crescere e germogliare e vivere nuovamente dopo l’inverno gelido che mi ha visto spoglia.
Quassù, sulla collina, nel silenzio della mia vigna, il sole mi culla nei mesi caldi, la mia linfa scorre velocemente, le gemme si fanno tralci ed amorevolmente dono la mia energia per fruttificare.
Nella calura estiva aspetto la pioggia che maturi gli acini e cullandomi nell’infinita alchimia della mia natura trasformo ciò che e’ aspro in dolce.
Poi le giornate si accorciano e quando gli uccelli si allontanano alla mia vista so che e’ tempo di prepararmi.
Allora cento mani premurose mi accarezzano per cogliere i grappoli succulenti.
Ho portato a termine il mio compito ed ora potrò riposare.
Di nuovo.
Come l’anno precedente e come ancora l’anno prima.
Questa è la mia vita.
Artigiani sapienti si prenderanno cura dei miei frutti e li trasformeranno in vino, secondo regole tramandate di padre in figlio.
Le cantine si riempiranno del dolce odor di mosto lasciato a fermentare. Odore d’autunno ancor mischiato alla fragranza estiva, odore di festa con un retrogusto di leggera malinconia per un passato che svanisce mentre il nuovo sta nascendo. Il sole, il calore e la luce si tramuteranno in riposo, quiete e buio dell’invecchiamento nei barili.
Solo dopo anni il mio vino sarà gustato.
Sotto la luna fredda ed austera d’inverno, sulla collina, a volte sogno quel momento e nel mio sonno come un’esaltazione mi assale.
Sogno un sommelier che, in un rituale secolare, afferra con mani sicure la bottiglia polverosa e senza bruschi movimenti affonda, in sinuose giravolte, il verme del cavatappi nel turacciolo di sughero, soffermandosi un istante ad ogni giro perchè il momento sia più sacro.
I commensali attendono impazienti. Nel silenzio, uno schiocco secco rompe l’attesa generale ed il sommelier porta il tappo al naso. Tutto è a posto. Il calice panciuto è pronto sulla tavola ad accogliere il mio vino. Finalmente.
Ecco che scorre fluido lungo il bordo di cristallo producendo un rumore quasi impercettibile nella sala.
Il sommelier sorregge il calice ed osserva. Il vino è di un rosso rubino intenso con qualche riflesso violaceo ed una nota d’arancione frutto dell’invecchiamento. Lui si porta il calice al naso ed inspira, socchiudendo gli occhi per cogliere i profumi più diretti ed immediati, ruota il bicchiere ed annusa nuovamente i profumi più profondi. Senza fretta.
Poi sorseggia lentamente. Trattiene in bocca il vino e lo rigira con la lingua afferrandone le sensazioni gustative. Lo assapora fino in fondo. Infine deglutisce estasiato.
Qui il mio sogno inizia a diluirsi tra parole che si fanno lontane, in un miscuglio di aromi e di sottili sfumature, con un retrogusto onirico di profumi raffinati ed eleganti che rimangono impressi nella mia memoria.
Mi risveglio nell’umido silenzio notturno ad osservare lo scorrere del tempo, mentre gli uomini si compiacciono della mia essenza di fronte ad un camino acceso. Sorreggono il calice e lo riscaldano tra le mani per liberare i vapori alcolici della mia natura più profonda e raffinata ed una parte di me sale verso l’alto, come il mio pensiero che torna ad una nuova estate ed ad una nuova vita.

martedì 8 dicembre 2009

Cavalcata carsica 2009: traversata integrale del carso triestino lungo il sentiero CAI numero 3


Corro spesso in una sorta di meditazione.

Guardo gli alberi che passano veloci come il mio respiro affannoso.

Amo correre nei boschi e nelle praterie del Carso dove sento il mio corpo in simbiosi con la natura, come se lo sforzo mi collegasse in un modo più sottile al creato che mi scorre intorno.

In Oriente ci sono monaci che si mettono le pietre nelle scarpe perchè affermano che il dolore e’ un buon amico ed avvicina a Dio e forse il dolore dello sforzo fisico può abbassare le difese ed avvicinarmi a Lui che sta tutt’intorno.

L’atto del gesto atletico impegna la mia mente e non la distoglie dal luogo fisico, dal qui ed ora, e mi sento più presente.

Sta di fatto che mi piace correre. E non per sfuggire ad un qualche cosa. Mi piace correre perchè mi da respiro e mi fa sentire libero. Nella medicina orientale i polmoni vengono associati alla capacità di relazionarsi con l’esterno, con il mondo, dando la capacità di accogliere il fuori dentro di se. Così correndo accolgo la natura, gli alberi, i prati ed i sentieri che cambiano di panorama ad ogni curva.

La corsa mi fa volare.

Mi sento vivo mentre il sangue pulsa veloce nelle mie vene e qualche volta corro per non pensare.

Quando il dolore si fa grande ed ottenebra tutto il resto, prendo le scarpe da ginnastica e svanisco nel mio Carso per qualche ora.

Mens sana in corpore sano.



Ieri, domenica 6 dicembre 2009, ho corso il Sentiero 3 del Carso Triestino. La famosa Cavalcata carsica che ha luogo ogni prima domenica di dicembre, di circa 50 km e 1300 metri di dislivello positivo, dove i bikers ed i podisti più svitati si cimentano in questa prova da veri duri. Dico circa 50 km perché sul sito degli organizzatori viene indicata di 53 km, ma il GPS segnava alla fine 49 km. Facendo una media la do buona per 50 km.



Sono stato convinto a farla da Sasha, uno dei miei affezionati amici di sgambate, appena lunedì scorso, anche se non ha dovuto insistere più di tanto. “Se mia moglie lavora la mattina vengo con te” gli ho risposto. Detto e fatto. Poi all’ultimo minuto siamo riusciti a convincere anche Lorenzo, altro affezionato compagno di allenamenti. Nessuno di noi aveva fatto lunghissimi specifici. Il mio ultimo 35 km risaliva a metà settembre scorso quando mi stavo preparando per l’Ecomaratona dei Cimbri (che poi non ho fatto) e l’ultimo lungo (18 km e 1100 mt di dislivello tra Carso e Val Rosandra), fatto insieme a Sasha, risaliva ad un mese e mezzo fa. Quindi siamo andati all’avventura senza nemmeno sapere se si arrivava alla fine, anche se va detto che i nostri cinque allenamenti a settimana, di circa 10 km, ce li facciamo sempre.

Arriviamo così a Pesek, domenica 6 dicembre, ore 7.30.

Sono attrezzato con uno zainetto munito di camel bag. Mi porto dietro un litro e mezzo di Gatorade, vari gel di maltodestrine, che prenderò ad intervalli regolari di un’ora, e qualche barretta. Irina, la moglie di Sasha, ci presterà assistenza durante il percorso, in due punti in cui il sentiero interseca la strada asfaltata. Uno a Fernetti e l’altro a San Pelagio. Le lascio ulteriori due litri di Gatorade che prenderò durante il percorso ed un panino. Ho inoltre con me il GPS che mi aiuterà a seguire nei punti critici la traccia del sentiero 3 preimpostata.

Il termometro segna 1°C. Il cielo, anche se ancora non completamente chiaro, è velato di nubi. Sarà l’eccitazione o la curiosità di fare un percorso che integralmente non ho mai fatto, ma non sento freddo.

Si parte.

Il sentiero è subito in leggera salita verso il Monte Goli per poi ridiscendere a Grozzana. Sorpasso qualcuno ma non voglio forzare, la vera fatica so che si farà sentire più avanti e quindi mi voglio risparmiare fin da subito. Per fortuna il terreno ha assorbito abbastanza le piogge dei giorni scorsi e non presenta le pozzanghere che solo tre giorni fa dovevamo dribblare in continuazione durante l’ultimo allenamento. Lorenzo va ad un ritmo più lento e fin da subito lo perdiamo indietro. Io tengo d’occhio Sasha che non voglio mollare e spero che non aumenti il passo. Lui ha pronosticato un tempo inferiore alle 6 ore, ma io che sono più realista quoto intorno alle 6 ore e 30’ – 7 ore. Mancano i lunghissimi nelle gambe.



La salita al Monte Concusso non è molto impegnativa ed arriviamo su tranquilli. Non si arriva in cima ma si sta un po’ più bassi. Inizia la discesa e mollo le gambe, ma sempre ad un passo controllato. Viaggiamo attorno ai 10 km all’ora di media. Poi, sento un rumore di sterpaglie sulla sinistra e scorgo una grossa macchia marrone che avanza velocemente verso il sentiero. E’ un grosso cinghiale che correndo via mi passa davanti a circa dieci metri e dai rumori ce ne deve essere un altro che però fortunatamente si allontana in direzione opposta. Piccolo brivido e sferzata di adrenalina. Affrontiamo la prima discesa impegnativa giù dal Concusso a passo controllato. Pochi chilometri e dopo una leggera salita siamo a Gropada, dove incontriamo i primi sostenitori che ci incitano. Con Sasha ci diciamo che siamo a casa nostra, perché questi sono i posti usuali dei nostri allenamenti. Arriviamo al Monte dei Pini e la mia vista si perde verso il Monte Nanos spruzzato di bianco, il Monte Nero con la sua bellissima parete sud completamente coperta della neve degli ultimi giorni, che qualche anno fa ho disceso con gli sci, e poi più in la le meravigliose Alpi Giulie candide degli ultimi fiocchi. Uno spettacolo magnifico ampliato dalla sensazione di essere parte della natura che la corsa mi regala.

Le gambe vanno bene. Superiamo il Monte Franco ed arriviamo a Fernetti .



E’ tempo del primo ristoro.

Bevo mezzo litro di Gatorade e si riparte.

Adesso inizia la parte più impervia del percorso che in un susseguirsi di salite e discese abbastanza impegnative ci condurrà verso la seconda sosta, presso il valico di confine di San Pelagio. Pronostichiamo che il tratto ci impegnerà per circa due ore.

Dopo la riserva naturale del Monte Orsario, passiamo la strada asfaltata di Monrupino dove ritroviamo l’incitamento appassionato di vari sostenitori e svoltiamo per una discesa che passa sotto la Rocca di Monrupino, verso una delle parti del percorso che mi piace di più perché, oltre a frequentarla poco, è molto varia ed in molti casi offre buoni scorci sulla valle slovena del Vipacco e sulla Selva di Ternova. Io e Sasha affianchiamo Sebastian, un suo amico, che sarà parecchie volte provvidenziale nell’indicarci la strada giusta (abbiamo entrambe il GPS ma è sempre meglio avere una guida in carne ed ossa). Correremo insieme per parecchi chilometri, fin quasi sul Monte Ermada.

Il sentiero in certi tratti è molto difficile, soprattutto per i bikers, ma anche per noi podisti non è da meno. Ci sono un’infinità di sassi e dopo un po’ le mie caviglie, soprattutto la destra, iniziano a farsi sentire.



In sequenza ci lasciamo indietro, con tratti di sentiero anche molto ripidi, che nulla hanno da invidiare a dei sentieri alpini e che vedono parecchi bikers con bici a spalla o sbuffanti a spinta, il Colle dell’Anitra, la riserva naturale del Monte Lanaro, la Sella Mercoledì, il Monte Coste, il Monte San Leonardo.



Le gambe iniziano a farsi sentire e tutte le salite camminiamo. Del resto, quello che si guadagna correndo in salita non è molto, se paragonato ad una camminata veloce ed in più il camminare permette di recuperare un po’ di energie. Inizio ad usare le salite per fare stretching dinamico allungando i passi. Sento infatti una sensazione prossima ai crampi ai bicipiti femorali e spero con questo esercizio di prevenirli. In discesa inoltre, nei tratti che lo permettono, cerco di sciogliere le gambe senza trattenerne il movimento. Cerco anche di non parlare per risparmiare le energie. Ogni tanto qualche biker, sul piano o in discesa, ci supera, ma poi in salita lo ripassiamo in un tira e molla che ormai è divenuto una costante. Quasi una gara nella gara. A detta di Sebastian in tre siamo il gruppo perfetto perché se uno di noi si inchioda, gli altri due lo possono portare avanti a spalla. Io tra me e me penso “E se ci inchiodiamo in due?” Questo ironico pessimismo è sicuramente legato alla stanchezza, che dopo più di trenta chilometri inizia a farsi sentire. Ma nemmeno finisco di ridacchiare dei miei pensieri che arriviamo ad un altro mezzo litro di Gatorade, al panino alle olive, al ristoro, insomma a San Pelagio. Già arrivare qui è una soddisfazione.




Nel aprire lo zainetto per rifornire il camel bag mi accorgo che li dentro è tutto fradicio. Accidenti! La cartina Tabacco 1:25.000, a cui sono affezionato perche ci scrivo dietro le mie varie escursioni, è da buttare, i guanti sono inzuppati, il telefonino per fortuna funziona ancora. Il camel bag perde. Più tardi scoprirò che ha un microforo e che la guarnizione del tappo sul fondo non tiene bene, ma adesso non posso farci nulla e lo carico lo stesso di un litro e mezzo di acqua. Mi libero del giacchino tecnico e rimango con la sola maglia a manica lunga. Fa abbastanza caldo e non soffia vento.

Si riparte per la parte finale.

Ancora 15 km circa. I più duri. Non tanto per la conformazione del terreno, ma perché dietro ci sono 33 km, circa 1000 metri di dislivello e 4 ore di corsa.

Reiniziando a correre noto subito che il pit stop mi ha fatto bene. In breve io e Sasha raggiungiamo e sorpassiamo coloro che non di sono fermati al ristoro e proseguiamo ora su un tratto pianeggiante che a dir la verità mi fa soffrire più che le salite e le discese. Preferisco il sentiero tortuoso, il sali scendi, il dinamismo delle curve repentine che mi distoglie dalla stanchezza, mentre i tratti pianeggianti e diritti mi fanno sentire la fatica nella loro monotonia. Ma non dura troppo e davanti a noi si vede già il Monte Ermada che sembra ora sfidarci.

Iniziamo la salita e mi conforta tantissimo avere una buona scorta d’acqua. Ogni tanto butto giù un sorsetto e mi sento subito meglio. Stiamo per superare il Monte Ermada ed ormai pare quasi fatta. Inizia la famigerata discesa dell’Ermada, ripidissima, ma riesco a corrichiare. Meglio di quando l’ho fatta in un allenamento lo scorso anno. Quella volta mi aggrappavo ai rami per non scivolare, invece oggi la discesa scivola via come l’olio e stranamente mi sento di gran lunga meno stanco del previsto. Merito dell’eccitazione e della soddisfazione di stare per concludere una gara no limits, che una settimana prima non avevo assolutamente in programma ed in un tempo cronometrico che francamente non immaginavo di riuscire a fare oggi. Mentre svolto a sinistra mi giro verso la discesa appena fatta e vedo che Sasha è indietro e sta appena iniziando a scendere. Mi dispiace perché avrei preferito che fossimo arrivati insieme fino alla fine della gara, ma mi sento bene e così vado avanti.

Poco dopo ringrazio il GPS che mi segnala immediatamente un mio errore di percorso proprio prima di Medeazza. Stavo andando diritto mentre bisognava svoltare a destra.

A Medeazza c’è un gruppetto di sostenitori, tra i quali Mario, che mi offre dell’acqua provvidenziale. Reduce dalla maratona di New York si è iscritto anche lui alla cavalcata carsica, ma purtroppo si è dovuto ritirare dalla gara quasi all’inizio per problemi al ginocchio. Incitandoci nei punti possibili ha comunque trovato il modo di rimanere nell’alone di entusiasmo e nello spirito sportivo della gara ed inoltre segnalandomi ora che mancano una ventina di minuti all’arrivo mi ha caricato per gli ultimi chilometri.



Nonostante abbia già corso per circa 45 km non mi sento eccessivamente pesante e le gambe riescono ancora a tenere un ritmo decente anche nelle leggere salitine che incontro sul sentiero. Riscalo la mappa sul GPS perché voglio vedere l’arrivo sul display, una prova tangibile e concreta di quanto l’amico Mario mi ha comunicato poco fa, ma subito, oltre agli alberi scorgo in lontananza i tetti di Iamiano di fronte a me. Faccio un rapido calcolo della distanza. Saranno al massimo 2 km, forse meno e aumento il ritmo. Volo verso la soddisfazione ed il calore degli amici che mi stanno aspettando. Ormai è fatta e dopo poco l’ultima salita va via di corsa, tra i complimenti della piccola folla che aspetta l’arrivo degli svitati corridori del sentiero numero tre. Quelli che, per respirare un po’ di natura e un po’ di sana competizione con se stessi prima che con gli altri, decidono di percorrerlo integralmente in una gara amichevole che si protrae in una tradizione annuale dal 1987, la prima domenica di dicembre, con qualsiasi condizione climatica. Guardo l’orologio, faccio un rapido calcolo e realizzo che per essere la mia prima cavalcata carsica posso dirmi più che soddisfatto del mio tempo. Ho impiegato 6 ore e 14’. Molto meglio di quanto prevedevo.

Sasha arriva poco dopo, in 6 ore e 21’, mentre Lorenzo arriverà all’incirca in 7 ore e 10’.

E chi dice che la domenica esiste solo il calcio?

Provare per credere.

Iamiano, domenica 6 dicembre 2009, ore 13.44

Classifica finale podisti

1 MASSARENTI PAOLO 4.32.40
2 RUZZIER SERGIO 4.34.08
3 BELICH MORENO 4.43.09
4 STRAIN FULVIO 4.45.06
5 PELUSI FULVIO 4.58.06
6 VIOLA ENRICO 4.59.34
7 TUL IGOR 5.15.28
8 TUNIZ ANDREA 5.17.45
9 GRION ADRIANO 5.25.44
10 ZUGNA DAVIDE 5.27.33
11 BABICI ANDREA 5.30.56
12 ROTTI MANUELE 5.31.48
13 NAIMI ALESSANDRO 5.31.49
14 PIPOLO SILVERIO 5.40.03
15 SCHIAVO FABIO 5.41.11
16 STOSSI IGOR 5.44.28
17 DEGRASSI GIULIANO 5.49.29
18 BREGA MAURO 5.53.15
19 LIGOTTI GIUSEPPE 5.57.57
20 CAVALLARI STEFANO 5.58.34
21 POZZER ANDREA 6.01.37
22 FURLAN OLIVIERO 6.01.50
23 OLIVO ROBERTO 6.05.03
24 LUCCHI FRANCO 6.08.15
25 GRIZON SEBASTIANO 6.12.31
26 PEDERSINI CRISTIANO 6.14.41
27 GIABBAI DANIELE 6.22.10
28 RACHIEVSKI ALEXANDRE 6.22.40
29 CEJ IGOR 6.23.49
30 AVERSI CINZIA 6.28.59
31 BIDUSSI MASSIMO 6.32.57
32 GLAVINA MAURIZIO 6.33.20
32 POLLINI ENRICO 6.33.28
34 MORONI SABRINA 6.33.30
35 GIACOMINI ROBERTO 6.33.31
36 SERGI MARINO 6.44.46
37 ORLICH ROBERTO 6.45.45
37 VASCOTTO MARCO 6.47.40
39 LIPPI FEDERICA 6.48.13
39 BEMBI GIOVANNI 6.48.54
41 RAVALICO RENATO 7.13.43
41 SERGON EDI 7.18.44
43 CRISIANI MASSIMO 7.19.51
44 VITALE LORENZO 7.20.24
45 SIMINI ALBERTO 7.20.25
46 LUCHESI LORETTA 7.26.18
47 STEFANI CLAUDIO 7.29.20
48 BOCCIAI MARCO 7.30.32
49 MEDIN MICHELE 7.30.56
50 BOSCO CHIARA 7.32.20
51 SISTO DANILO 7.32.23
52 BRACHETTI GRAZIA 7.32.24
53 ARBAN MAURIZIO 7.40.36
54 ZUIN DELFINO 7.40.38
55 BABIN PAOLO 7.40.39

Ritirati:
1
BIDOIA EDOARDO
2 BOMMARCO GIORGIO
3 BRATINA RAFFAELE
4 COK BORIS
5 COMELLI LUCIANO
6 COSELLI MAURO
7 COSTA MARIO
8 COZZARIN FABRIZIO
9 DE FRANCESCHI DENIS
10 DELLA VALLE ALBERTO
11 FILIPAZ FRANCO
12 GRIGIO VALERIA
13 ITRI ANDREA
14 KRAVOS ROBERTO
15 LABELLA PATRIZIA
16 MACHNICH ALESSANDRO
17 MADOTTO LINO
18 MANZUTTO LUCA
19 MARTINELLI MAURIZIO
20 MUIESAN MARIACRISTINA
21 PASSADOR STEFANO
22 PIERI DENIS
23 SLAMA LORENZO
24 SPEDICATI STEFANO
25 TOSSUTTI MARCO
26 ZGUR FULVIO