sabato 19 gennaio 2013

L’epoca del narcisismo



Ultimamente non mi capita spesso di camminare tranquillamente e senza fretta per le vie della città.
Stamane invece avevo un po’ di tempo libero, e me ne sono andato a zonzo, senza fretta, tra le strade vuote di un sabato mattina precoce.
Ho osservato il tempo che cambia. Anche dall'orario dei negozi.
Le serrande una volta si alzavano molto prima, quando ora, sino alle 9 della mattina è quasi un deserto. Pochi pedoni e strade vuote.
Ho vissuto per molti anni nel Borgo Teresiano, a Trieste, e ho visto il mutamento degli ultimi decenni.
Strade chiuse al traffico, sempre meno facce slave, sempre più occhi a mandorla con i loro negozi spesso vuoti ma sempre aperti. Chissà come faranno.
Ormai nel centro della città non esistono più possibilità di parcheggio fuori dalle strisce blu.
Zona rossa, due euro all’ora o giù di li.
Solo quindici anni fa riuscivo a parcheggiare liberamente la macchina sul canale di Ponterosso, ormai  off-limit alle ruote che non siano coi pedali.
Forse è meglio così, come è meglio che non si possa più fumare nei locali pubblici. Come pure è meglio che da decenni non si veda più nessuno fumare nei programmi televisivi.
Tutto ciò non è una critica, semmai il semplice constatare di un’epoca che cambia, forse un po’ nostalgico, dai colori seppia, ma scevro da giudizio.
Il fumo, si sa, fa male, e anche stare troppo in un'automobile non è salutare.
Però di cose che fanno male ce ne sono anche altre. E molte. Spesso subdole e meno individuabili perché fanno parte di una cultura di massa strisciante, invisibile, che ti permea dentro in maniera subliminale, integrata in una visione che sembra essere l’unica possibile.
Di solito non mi fermo mai a parlare con i ragazzi di colore che vendono per strada.
Nella zona del Ponterosso ce ne sono tanti.
Spesso cambio marciapiede per non trovarmeli davanti e se ciò capita, li evito con un “No grazie!”, ruvido ed insensibile, quasi infastidito.
Oggi invece mi sono lasciato fermare da uno di loro.
Avrà avuto venticinque anni, con i denti malconci, un incisivo rotto, una faccia simpatica.
Voleva vendermi dei libri con il solito “Ciao amico!” d'introduzione.
E' da un po’ che sto pensando di come sarebbe affascinante raccogliere le esperienze di questi ragazzi, parlare con loro e magari scriverci un libro, invece di evitarli costantemente.
Così stamane oltre a comperargli dei libri, gli ho chiesto da dove venisse, come avesse fatto ad arrivare in Italia, il perchè si trovasse qui.
Era un senegalese sbarcato in Spagna, a Fuerteventura, dal Senegal, in uno dei tanti viaggi della disperazione che attraversano l’oceano e il Mediterraneo.
Mi ha raccontato che ne erano morti tanti durante il suo viaggio.
Una volta arrivato al centro di smistamento delle Canarie, è riuscito a raggiungere la Spagna continentale, dove si è fermato qualche anno e dopo è arrivato in Italia, dove, a quanto ha detto, si sta meglio che in Spagna.
Poche frasi, cinque minuti di conversazione, per gettare un’occhiata veloce in una vita che sta peggio della mia. E stamane a me, tutto questo ha fatto riflettere mentre guardavo le commesse pulire le vetrine e i primi pedoni iniziare la loro giornata.
Mi colpito il contrasto tra la vita di questo ragazzo di colore, e quella, mia immaginaria, di un passante che ho incrociato, dal vestito Armani, con la erre moscia e con al guinzaglio due carlini con il cappottino. Il divario da quella di una coppia ferma davanti una vetrina, a guardare l’IPhone di ultima generazione, o daquella di una signora che è scesa veloce dalla sua Audi in seconda fila, inveendo con chi le aveva suonato per farle notare che il parcheggio non era dei più felici. Il distacco di quell'esistenza di stenti, dalla vita degli habituè delle bettole di Ponterosso, bettole che ormai, da quando hanno messo quattro sedie e quattro tavoli alti sui marciapiedi, fanno tendenza e non si chiamano più bettole. Sono diventate alla moda e se chiedi un ottavo di vino rosso, ti guardano storto e ti reclamano nome, vendemmia, bouquet, anni di invecchiamento e soprattutto quindici euro per un bicchiere. Per finire, anche se potrei continuare quasi all’infinito, il contrasto tra la vita di questo ragazzo di colore e la vita dei molti di noi, che correvamo angosciati per i corridoi affollati dei centri commerciali, per non essere riusciti a comperare in tempo, tutti i regali per il Natale appena passato.
Insomma, quello che manca oggi, credo sia la maturità e una corretta dimensione di vita.
Il consumismo ha allontanato, ha fatto regredire le nostre menti, ha risolto la nostra esistenza al comperare quattro beni, il più delle volte inutili, che se non possiamo averli, allora ci sentiamo infelici e frustrati come quando eravamo bambini, e mamma e papà non ci comperavano il giocattolino tanto desiderato.
Abbiamo scambiato il desiderio con il bisogno.
Molti addirittura non sono affatto consapevoli dei loro bisogni.
Il bisogno è un qualcosa di profondo, di vitale, che è necessario poter riconoscere.
Il riconoscimento di un bisogno tende a far assumere delle responsabilità nella propria vita.
Delle responsabilità verso se stessi.
Tale riconoscimento può far soffrire perché fa emergere i nodi irrisolti, le lacune, le ferite anche antiche.
E’ di fatto molti si limitano alla percezione del desiderio, perché se questo non posso soddisfarlo, allora è sempre colpa di qualcun’altro.
E' necessario distinguere bene tra la parola “colpa” e la parola “responsabilità”.
La prima si usa spesso da bambini e, guarda caso, è usata moltissimo dai mass media e dalla gente comune. “Non è colpa mia, è colpa sua” dice a sua madre il bambino che ha rotto il vaso, indicando il fratellino.
Non è forse un qualcosa che facciamo spesso anche ora che siamo cresciuti? Cerchiamo sempre un capro espiatorio.
Invece la parola responsabilità è un’altra cosa. E' molto più impegnativa, molto più profonda.
Denota la dimensione adulta, la capacità di un’analisi matura della propria realtà interiore ma anche di quella del mondo esterno. Segnala la partecipazione attiva alla propria vita.
Ma la nostra è una società responsabile? Io credo fermamente di no.
La nostra è una società narcisistica che identifica con il possesso la pienezza di un’esistenza.
Tale possesso può essere di beni, di artefatti, ma anche di persone.
Tanti, per esempio, identificano con la parola amore un totale controllo sull’altro, in una distorsione completa della dimensione affettiva.
Il controllo è imperativo per chi ha paura. Una paura, non percepita, di sentirsi abbandonati, in balia degli eventi, soli.  
Per queste cose si fanno guerre, si uccide e si sacrifica.
Tante cose si fanno pur di non vedere la propria fragilità e trovarsi così di fronte ai propri fantasmi.
Oggi è l’epoca del narcisismo, della bellezza fine a se stessa, esteriore, priva di uno spessore capace di apprezzarne le forme, le sfumature e la complessità.
Dirà qualcuno che anche Michelangelo cinquecento anni fa amava la bellezza, e che non c’e’ niente di male in ciò, ma invero, la bellezza ha un senso profondo solo se si conosce la bruttezza e il sapore aspro della vita. Guardando i suoi Prigioni qualche anno fa a Firenze, sarei rimasto li incantato per ore e ore. Li ho trovati ancora più belli dello stesso David che era li a due passi. Quelle statue volutamente incomplete volevano rappresentare la difficoltà,  la fatica che deve fare l’uomo per liberarsi dal peso della materialità, la lotta esistenziale e la liberazione dello spirito e dell’arte dalle costrizioni della materia. Una liberazione che sarebbe avvenuta solamente dopo la morte. I vari gradi di finitura dei Prigioni rappresentano, così, diversi momenti dell’esaltazione di questo sforzo. Il Prigione più vicino alla completezza della forma in cui la liberazione dalla materia è quasi completata, è quello più vicino alla morte.
Già, la morte.
Non si può apprezzare la vita se non ci si confronta con la morte.
E cosa fa la nostra società? Relega la morte perché scomoda.
Certo, siamo bombardati quotidianamente dagli scoop televisivi con immagini crude di guerre e di delitti in diretta. Ma quella è la risposta ad una crescente domanda di morbosità che nasce proprio dall’asfissia inconsapevole dei bisogni di autenticità.
Però secondo me, la più alta forma di autenticità è il confronto con la propria fragilità di esseri umani, insita in ognuno di noi, che è proprio rappresentata dal confronto con la morte.
Ma se tale confronto viene negato forzatamente, relegato da una paura collettiva e inconsapevole nei meandri più profondi della mente, esso cercherà un varco e si manifesterà in superficie come può, e come sta facendo oggi, con la morbosità e con un crescente senso di vuoto, mantenuto spesso sotto la soglia di coscienza,  che viene affrontato da una frenesia collettiva verso il possesso o la distrazione.
Oggi si fa di tutto per apparire performanti, parola che io odio, ma spesso ahimè usata. Veloci, scattanti, attrezzati, preparati, aitanti, sorridenti, belli, abbronzati, dinamici, positivi, ottimisti, perfetti insomma.
Sarà tutto qui?
Cioè la vita si risolve a queste cose banali e superficiali scritte e lettere cubitali sui cartelloni pubblicitari e negli spot televisivi?
A pensare così, mi viene una grande tristezza.
Mi viene voglia di ritornare sulle ginocchia della nonna ,e farmi cullare come quando ero bambino.
Mi sorge il desiderio di ritornare ai natali della mia infanzia, quando scavavo con le dita il panettone per tirare fuori i canditi.
Mi viene voglia di ritrovare un po’ di calore negli occhi del mio prossimo e sento il bisogno di un abbraccio sincero a cuore aperto, senza vergogna e senza parole, solo silenzio.
Si, perchè il rumore copre, e a volte il silenzio esprime più delle parole.
Stamane infatti per le vie della città c’era silenzio, e questa tranquillità apparente mi ha fatto riflettere e mi ha permesso di pensare senza fretta.
Oggi viviamo nel rumore più assordante.
Ma nemmeno questo sarà un caso.