domenica 19 febbraio 2012

Al guinzaglio


Lo sentono nell’aria. Come fosse un odore. 
Iniziano a scodinzolare e a guardarmi con una domanda che ha già in se una risposta quasi certa.
Hanno fiutato. 
Eppure la mia era solo un’intenzione non ancora pronunciata. Un’idea che loro hanno captato. 
“Si” dico con aria affettuosa “andiamo fuori a fare una passeggiata”. 
A questa certezza inizia l’euforia. Luna, la mia cagnetta, inizia ad abbaiare e a sorridere; perchè lei ride e io che la conosco lo capisco. Teo, l’altro cane, inizia a fare le trottole su se stesso.
Passa qualche attimo di pura gioia i miei due cani si lanciano verso i guinzagli.
Teo è un labrador puro, color miele, di circa due anni e mezzo. L’età esatta non la so, l’ho adottato da un rifugio. E’ stato salvato in gravi condizioni da alcuni volontari, che non sapevano quando fosse nato.
Luna invece è una meticcia di labrador nera di cinque anni, adottata da cucciola. Aveva appena un mese e mezzo e stava in una mano.
Adesso è una labradorina in miniatura. Non che sia piccola, pesa diciotto chili, ma non raggiunge la mole del labrador di razza, sebbene ne preservi la caratteristica camminata ondeggiante.
Mettere loro collare e guinzaglio non è facile. 
Perché per il cane andare a passeggiare è come per noi umani vincere al Superenalotto. 
Non stanno nella pelle e prima di riuscire a farli accovacciare devo ripetere loro due o tre volte il comando del seduto. E’ tutto uno sbattere di code su mobili e battiscopa.
Poi, dopo tutto il trambusto siamo pronti per uscire.
Apro la porta e nel loro fervore incontenibile i cani iniziano a tirare. Luna inoltre abbaia forte per la felicità.
I primi cinquanta metri sono sempre faticosi e devo contenere la loro euforia strattonando con un certo vigore i guinzagli. Dicono che il cane che tira al guinzaglio vuole essere dominante. 
Non lo so se sia così, ad ogni modo un po’ di disciplina in una famiglia non fa mai male e provo, forse con scarso successo, a fare il lupo alfa.
I cani annusano tutto. 
L’olfatto è per loro la nostra vista. È il loro senso primario ed esplorano così un mondo che a noi è precluso. Un mondo fatto di odori a noi invisibili. 
Io e i miei cani abbiamo il nostro giro usuale. 
Abito in campagna, e poco dietro la mia casa c’è una strada sterrata che porta al bosco. 
E’ lì che li lascio liberi di correre.
Subito è un abbassare il muso a terra e un annusare ogni singolo anfratto, ogni erba e ogni tronco, alla ricerca di chissà che cosa. 
È una frenesia di nasi che esplorano. 
Luna inizia a correre avanti e indietro, a cercare qualcosa, un pezzo di legno, una pigna, che io possa tirarle per poi riportarmela. 
Teo invece è un pacioccone. Per un po’ va a zonzo tra l’erba alta e gli alberi che affiancano il sentiero, poi fa i suoi bisogni in un modo tutto suo caratteristico, eseguendo un pittoresco balletto in girotondo. 
Infine, si mette a camminare al mio fianco e mi segue come un’ombra. 
Come giro a destra lui gira a destra, come giro a sinistra lui gira a sinistra, come mi fermo, si ferma e inizia a guardarmi come a chiedermi “ Eh mo’, dove andiamo?”.
Da sempre l’uomo ha convissuto con i cani. Da quando i nostri antenati preistorici hanno addomesticato il lupo ed è probabilmente per questo passato ancestrale, che camminare nella natura con il cane ha un qualcosa di speciale. 
Mi piace osservarli mentre corrono liberi. 
Formiamo un branco. 
Luna è la più irrequieta. Quando corre avanti si ferma spesso a vedere se ci siamo tutti dietro a lei.
Il branco va in giro insieme e nessuno si deve perdere.
Ogni tanto mi nascondo fulmineo dietro a qualche albero, per vedere come reagiscono alla mia scomparsa. 
Nei loro occhi per un attimo regna sconcerto. Quasi il panico. Poi si mettono a correre nell’ultima direzione nella quale mi hanno visto. 
Quando alla fine salto fuori dal mio nascondiglio è un mare di feste e di leccate. Un abbaiare gioioso e allegro.
Spesso me ne starei a casa e non uscirei, ma quando vedo gli occhioni dei miei cani che mi guardano supplicanti, non posso fare a meno di accontentarli. 
E quando sono li, tra l’erba e gli alberi e vedo come sono felici, la gioia pervade anche me. 
I cani mi fanno tenerezza perché non chiedono nulla se non una ciotola e un po’ di affetto. 
Non preservano rancore, anzi, non sanno nemmeno cosa sia e sono disposti a ritornare anche dal padrone più crudele, perché così è nella loro indole. 
Mi chiedo come si possa non abbracciare quegli occhioni languidi e quelle pancione pelose, e sprofondare nella tenerezza dei sospiri che fanno quando si rilassano distesi, mentre li accarezzo o ancora ridere divertiti nel vedere le loro zampe che corrono mentre dormono, a immaginare chissà che pascoli sconfinati.
Poco importano i peli sul divano o sui miei vestiti. Fanno parte del gioco e infine sono poca cosa in confronto al calore che loro donano. 
Non m’importa di quelli che dicono che sono solo cani e come tali bisogna trattarli.
Io infatti, li tratto da cani. 
Li accarezzo e li coccolo appena me ne danno l’occasione, cioè sempre. 
Li lascio stare distesi con me sul divano. A volte anche sopra di me, il che con Teo che pesa quaranta chili è un problema. Li porto a fare le passeggiate in mezzo alla natura, per loro il massimo della felicità.
Quando torniamo verso casa, Teo e Luna sono molto più tranquilli. 
Al guinzaglio non tirano più. Si sono sfogati e per quel giorno gli basta. 
Mi guardano soddisfatti e si vede dai loro occhi che sono felici. 
Percorriamo la strada asfaltata in lieve pendio, e Teo inizia come sempre ad arruffare il pelo sulla schiena. 
Stiamo infatti per costeggiare la casa in cui vivono due pastori bergamaschi, che lo irritano parecchio. Ogni volta, se non ci fosse il recinto si sbranerebbero a vicenda. 
È tutto un abbaiare e denti digrignati. 
Luna invece è incurante del più, e se ne fila via dritta senza degnare i pastori di un benché minimo sguardo. 
È la solita storia. Competitività tra maschi. 
Ma basta che lo strattono un po’ e Teo rinviene subito dalla sua aggressività. 
Anche per oggi è andata. 
Apro la porta di casa, tiro via i guinzagli e li lascio liberi.
Loro, prima bevono, poi reclamano qualche biscottino e in un istante sono distesi sul divano per continuare la loro placida routine. 
Non ho mai visto altro essere vivente addormentarsi così velocemente. 
Fanno proprio una vita da cani.

martedì 14 febbraio 2012

Farsi la barba

Farsi la barba spesso e’ una notevole scocciatura la mattina. Quando ho fretta e non ho voglia ,o tempo per aspettare che dal rubinetto mi arrivi l’acqua calda, in velocita’ prendo il rasoio e con quattro movimenti rapidi e forzati sono bello sbarbato,…. e pieno di sangue. Poi il sangue lo tampono per qualche minuto con dei pezzettini di carta igienica, nel mentre che mi sto vestendo, ma per tutto il giorno mi portero’ dietro i segni della mia fretta.
Altra cosa e’ farsi la barba quando sei calmo, dopo un bel bagno caldo, quando hai la pelle morbida ed intiepidita’ dal calore. Ti insaponi per bene con lo spazzolino di setola ed il rasoio va giu’ tranquillo, senza trovare la minima resistenza. La pelle poi rimane liscia, come quella di un bambino. 
Pelo e contropelo.
Io mi rado di contropelo, perche’ amo avere la pelle liscia al tatto. Qualcuno forse si accontenta di farsi solo di pelo, ma poi a mezza giornata ti ritrovi come se non ti fossi rasato. Dipende dalla fissita’ della tua barba. Oggi poi tanti la barba manco se la fanno perche’ va di moda la barba un po’ lunga. Fa macho, fa figo. Ma anche li e’ tutto da vedere. A qualcuno effettivamente dona, ad altri da quell’aspetto trasandato da barbone. In particolare mi incuriosiscono gli uomini al supermercato durante il fine settimana. Avete mai osservato quanti di loro vestono una tuta da ginnastica e non sono sbarbati? A me fanno un po’ di tristezza. Perche’ si vede che non sono abituati a tale abbigliamento ed il fatto di non essersi fatti la barba gli da quel tocco di decadenza weekendiana. Come se trasmettessero una frase di questo tipo: “ mi sono fatto il mazzo tutta la settimana in ufficio, in giacca e cravatta, perfettamente sbarbato e impomatato, con il capo che mi soffiava sul collo ed oggi invece mi sbraco, mi rilasso, posso essere quello che sono”. Sono l'immagine di quanto  questa societa' va contro ai bioritmi umani. Me li immagino a passare il week end davanti alla televisione, sul divano, a staccare per un attimo il cervello dalla loro routine. Pura immaginazione la mia, che probabilmente non ha nulla di quella che e’ la realta’, ma la barba sfatta, in certi momenti da adito a queste divagazioni mentali.
La mia prima barba adulta non me la ricordo. Invece mi ricordo la prima volta, ancora ragazzino, quando mi sono tagliato i baffi, o per meglio dire quella peluria, nel mio caso scura, che iniziano ad avere i ragazzini attorno ai dodici o tredici anni.
Erano mesi che me ne vergognavo, ma non avevo il coraggio di tagliarmela. Mio padre mi diceva, sempre "quando inizi non puoi piu’ finire". A me vederlo radersi dava l’impressione dell’adulto e l’atto stesso in se avrebbe rappresentato un passaggio per me epocale.
Era una sera e davanti allo specchio iniziai quasi per gioco, a radermi solo le estremita’ di  questi baffetti, striminziti, ma non avevo intenzione di andare oltre. Poi invece mi scappo la mano e non potei fare altro che radermeli completamente. Alla fine, anche se con un po’ di timore e vergogna per il fatto che apparivo diverso e per quello che avrebbero pensato o detto i miei genitori, ero contento e mi vedevo piu' carino senza quei peli scuri sotto il naso.
Ma aveva ragione mio padre. Da quella volta non ho mai piu’ smesso di radermi. E spesso e’ una scocciatura.

lunedì 13 febbraio 2012

Pane fatto in casa


Da un po’ di tempo mi piace fare il pane. Amo sentire la sua fragranza espandersi nell’aria durante la cottura. I risultati non sono sempre entusiasmanti, ma sto migliorando. A dir la verita’ ho comperato una macchina del pane, ma anche con questa i risultati non sono cosi’ automatici, anzi. Ho gia’ fatto molte prove ed i risultati sono stati altalenanti. Guardo di tanto in tanto nello spioncino del fornetto per vedere se la pasta lievita bene o per vedere se gli ingredienti sono ben miscelati. Ieri ho provato quasi gioia a guardarci dentro. La pasta era li, gonfia come non mai, bella, tenera, invitante. Era lievitata fin quasi a debordare. Che soddisfazione. Bellissimo. Ero al settimo cielo e non vedevo l’ora che iniziasse la fase di cottura per solidificare cotanta bellezza. Nel frattempo mi sono messo a leggere, ma era una lettura nervosa, impaziente. Stavo con un occhio sulla pagina e con l’altro alla macchinetta del pane. Il mio piede intanto tamburellava in terra mentre i minuti passavano lenti.
Fare il pane e’ affascinante. E’ un qualcosa di arcaico. Qualche anno fa mi sono dilettato a farlo da me senza amenicoli moderni. Un’amica panettiera mi aveva dato le dritte e cosi’ avevo iniziato. Era inverno perche’ e’ durante l’inverno che secondo me fare il pane in casa sprigiona tutto il suo fascino. Il forno caldo, le mani che impastano ora delicatamente ora con maggior forza il miscuglio di acqua farina e sale, fino ad ottenere una palla morbida e gonfia. Poi la lasci li per qualche ora, al caldo e dopo la rimpasti nuovamente. Lasci passare qualche altro po’ di tempo, dai la forma ai panini ed alla fine inforni.
Il pane ricorda le nonne. La nonna a dir la verita’ piu’ che il pane faceva tante buone torte. Soprattutto nel periodo di Pasqua. La pinza, il presniz, e le titole, quelle trecce dolci con l’uovo colorato al centro. L’immagine del pane e’ quella delle mani infarinate di mia nonna, una tavola tutta spolverata di bianco, un mattarello e tanta soddisfazione sul suo volto, contenta di fare qualcosa di buono per i suoi cari, per me. E’ l’immagine della saggezza. Pochi ingredienti umili e tanto calore.
Il tempo di lievitazione e’ passato ed ora la macchinetta infernale inizia a cuocere. Che bellezza, finalmente la soddisfazione puo’ consolidarsi. Con l’immagine iconica espansa della pasta lievitata e pieno di euforia boriosa corro a vedere il mio successo. Accendo la luce del cucinino e mi sporgo per vedere nello spioncino. Ma, che succede, oh no. Oddio, il centro della pagnotta si e’ tutto afflosciato. Piu’ che di una pagnotta la sua forma e’ quella di una padella rettangolare. Che delusione dopo tanta soddisfazione.
Nonostante la frustrazione ho portato avanti la cottura e devo dire che il pane, con i semini di sesamo che avevo aggiunto, era buono. Brutto, ma buono. La prossima volta migliorero’.

domenica 12 febbraio 2012

Giorni di bora

Oggi, una nuova giornata di bora. Stamane ho acceso la stufa. Ho preso il legno dolce dalla legnaia, legno di abete, che da fiamma viva e si accende facilmente. Solo dopo ho aggiunto il ciocco di faggio. La stufa la devi conoscere. La devi amare. Un po’ come una donna. Le prime volte vai a tentoni, perche’ non puoi capirla immediatamente. Il segreto della stufa sta tutto nel tenere la camera di combustione calda e nel conoscere gli attimi giusti per aprire o chiudere lo sportellino dell’aria in entrata. Se lo chiudi troppo presto quando la fiamma e’ appena nata la fiamma muore e se lo apri troppo, il ciocco non si trasforma in brace. Il calore che tanto apprezzi allora se ne scappa per il camino troppo in fretta e si disperde. Ogni stufa a legna e’ diversa ed il saperla usare bene e’ un po’ un’arte. La stufa rende l’ambiente caldo. La visione della fiamma dona intimita’, il profumo del legno secco apre le narici alla memoria e mentre le gelide raffiche del vento sbattono contro le finestre, l’aroma delle braci arse si espande nell’aria tiepida.
Oggi non nevichera’. Lo dicono le nubi chiare. Non e’ cielo di tempesta. La neve se n’e’ andata a sud, a prendere il sole e di noi, qui a nord-est, non ne vuol sapere. Ci resta il vento, che ci porta via i pensieri, che fa volare le tegole, scoperchia i tetti e fa ribaltare i camion. Il vento ha forza, una forza adiabatica che spazza tutto e non ha clemenza dei rami o degli alberi malati. Lui li abbatte senza pieta’. Secca la terra e la rende un nuvolo di polvere. Fa ribollire il mare del golfo e crea nuvole di nebbia salina che si gela sui moli e sulla barche. Pochi gabbiani lo sfidano nelle loro piroette. Questo vento di bora ha accompagnato la mia vita ed io un po’ ci sono affezionato. Era presente nelle giornate di neve quando con la slitta scivolavamo giu’ dalle strade coperte di bianco tanto tempo fa, in tarda estate il vento segnalava l’avvento dell’autunno e di un'altra estate della giovinezza passata. Qui noi del nord-est al vento siamo abituati e non ci fa paura. Forse anche per il vento Trieste e’ la citta’ dei matti. Fa volare le idee e le mescola in un qualcosa di incoerente, rende le persone isteriche e rabbiose, carica l’aria di corrente elettrostatica che poi si scarica sugli individui. Ma voglio bene al vento, porta cambiamento, e fa volare alto, lontano dalla staticita’.