lunedì 30 dicembre 2013

"Clanfe"


Nel dolore ci si può tuffare. 
A Trieste i ragazzini in estate vanno ai Topolini e si pavoneggiano di fronte alle ragazzine di turno, esibendo la loro bella coda di tuffi.

Il nome di questo centro balneare deriva dalla sua forma, che rimanda alle orecchie del famoso topo.

Vince chi schizza più in alto.

Ero bravo nei tuffi. 

A Trieste il tuffo che va per la maggiore è la cosiddetta “clanfa”.
Ci si tuffa a panciata, raggomitolando le ginocchia al petto, per evitare di lasciarci le budella e appena in acqua, ci si distende per accentuare l’ondata verso l’alto.
Si capisce subito nei timpani, se lo schizzo è stato all’altezza delle aspettative.

Le “clanfe” in realtà non mi sono mai andate a genio.
Ho sempre preferito le bombe. Non quelle americane, in cui devi stringere a te entrambe le ginocchia, e rischi di spaccarti il fondoschiena … quelle sono robe da infanti cicciobomba moccolosi, e anche poco eleganti da vedere.
Piuttosto, mi sono spesso cimentato nelle bombe, in cui finisci a gambe distese in avanti, e una volta in acqua, appena sotto il pelo, con un colpo di reni
, dai l’impeto al fiotto d'acqua verso l’alto.

Nei timpani senti un bel rumore sordo, come un pugno, un’onda che si infrange su uno scoglio.

Nel dolore ci si può tuffare.

Coraggio, dai trattieni forte il respiro, vai giù fino a toccare il fondo.
Coraggio ragazzo.
Poi, puoi solo risalire…. o annegare.

Eravamo giovani e inesperti e guardavamo il sole all’orizzonte.
Qualcuno di noi era spensierato, qualcuno meno.
Poi arrivava settembre, le rondini iniziavano a volare via, e un’altra estate era passata.

Le mie estati spensierate, non sono state tante.
Forse solo in un paio, ho potuto fare l’adolescente.

La vita è un viaggio di cui a volte, quasi sempre, non siamo consapevoli.
Camminiamo come i cavalli che tirano il carro, con i paraocchi e il sacco appeso dietro, per non sporcare la strada con el nostre sporcizie, di cui vergogniamo.

Abbiamo paura.

Penso che a volte non vorrei vedere, e non vorrei sentire.
Anelo a un interruttore, per chiudere la luce e dormire, nel sonno mediocre e inutile dell’inconsapevolezza.

La vita è fatta di conflitti, di doveri, di limiti. A tratti di luce.

E poi ripiomba il buio.

In ciclo perenne di pulsioni di morte e pulsioni di vita.

Ma del resto non c’è sole senza luna.

Vero amore mio?

Vie che si incontrano, vie che si dividono.

A volte il silenzio parla più delle parole. Anzi le parole a volte ingannano e fanno apparir banale quell’attimo di pausa e d'incertezza.
E’ in quel momento che se ci riesci, c’entri dentro e ti perdi per un istante. Lo vedi e ti attanaglia. 

Lui. Il dolore.

Non voglio perderti amore mio.

"Ragazzo, puoi voltarti indietro, annaspare, cercare la superficie e non ritornare più alla sponda del mare.
Per non annegare, per non soffrire.
Ma che vita avresti?"

Conflitto. Apro la luce, chiudo la luce.
Tic tac, tic tac, finche’ l’interruttore s’inceppa e le mani si rattrappiscono in una smorfia contratta, fatta di un sonno senza sogni.

Pausa.


Una parola, poi una frase, poi di nuovo il silenzio.

Il dolore arriva e avvolge, e ti trovi nel labirinto a cercare l’uscita.

A volte accadono cose strane. Le chiamano coincidenze, ma tu sai che non son tali. 

Invece ci sei tu. Sei parte di un tutto che ti si sta svelando.

Ho quindic’anni e sono li sul trampolino.
Ho il sole alto di fronte a me, e guardo l’orizzonte.
E’ strano, sono li, come tanto tempo fa, eppure ho la mente d iadesso, di trent’anni dopo.
Eppure sono li, in bilico su un trampolino sghembo, dei Topolini di allora.

Intorno non c’e’ nessuno.
E’ inconsueto, ma nemmeno tanto, perché è inverno.

Sono solo.

Solo io e il mare.

Il trampolino è scivoloso, ma ho la forza della giovinezza….. E penso.

No, ormai non c’e’ più incertezza.

Mi tuffo.

Eccomi amore mio.