sabato 29 dicembre 2012

Moon rising above Sesana


mercoledì 26 dicembre 2012

Uno spazio condiviso



Nel dormiveglia stamane ho riflettuto sulle dinamiche dei gruppi e sulle mie reazioni interiori in merito ai conflitti. Non piacciono i conflitti. Cerco sempre di appianarli, di conciliare e di stemperare. Questa inclinazione, come e' ovvio e' legata alla mia storia personale; ognuno ha la sua. Ma il conflitto fa parte della vita, anzi a guardarsi intorno, nei TG e nei giornali sembra la vita stessa. Purtroppo. Dicono poi, gli psicologi, che bisogna imparare a gestirli. A pensarci bene i conflitti possono essere di due tipi: distruttivi o costruttivi. I primi generano astio, malumore, odio nei casi estremi o molto piu' spesso allontanamento. I secondi invece sono necessari per destabilizzare un equilibrio, per rompere una scorza che sia di routine o di schemi mentali, e se gestiti e capiti possono portare a una maggior condivisione. Ad un nuovo equilibrio piu' vero. A me in realta' interessa particolamente quel luogo dove i conflitti si sgretolano e nasce la condivisione. Si ma dove sta questo luogo? Per me e' il luogo del proprio dolore. Quello, se e' autentico, puo' far sorgere discussioni solo nelle persone insensibili. Si ma il mondo e' pieno di questi individui, mi direte. E' vero, ma vale la pena non vivere e sotterrarsi con le proprie mani per costoro? E' un'esperienza che ognuno di noi puo' fare nella propria vita e certamente non solo studiando psicologia. E' un piccolo fremito nella pancia, una fragilita' crescente, un sibilo di voce che da debole si fara' ogni volta un po' piu' forte. Una voce di autenticita' che non ha bisogno di teoremi e spiegazioni, che si rinnova sempre perche' non puo' essere uguale a se stessa, pena l'essere scontata. E dunque falsa. 
Nella mia fantasia si fa strada un posto di accoglienza: un luogo sicuro, caldo, affettuoso ma autorevole, in cui poter prendermi cura del dolore delle persone e trasformarlo in calore e creativita'. Questo deve fare uno psicologo e uno psicoterapeuta. Utilizzando un'umanita' che vuole essere partecipazione matura e non semplice caso clinico, asettico, bianco come un bisturi che odora di disinfettante. Anzi, spesso le cose piu' importanti sono proprio quelle piu' sporche. Una responsabilita' enorme quella di accogliere il dolore,, immane per la quale ci vuole un buon addestramento e buoni maestri. E secondo me parecchia umilta'. Questo spirito di condivisione ha sempre guidato anche la mia pratica di shiatsu. Da anni lo penso e sono sempre piu' convinto che le persone cattive non esistono, ma esistono solo persone che stanno male e che forse avrebbero bisogno di uno spazio in cui crescere ed essere capiti. E di spazi di questo tipo ahime' ce ne sono proprio pochi.

domenica 16 dicembre 2012

Gocce di Natale


Vedo alberi di natale li fuori. Dal finestrino sfilano i paesaggi, velocemente, come il tempo che sembra scorrere in avanti. Velocemente come le mie dita sulla tastiera di questo freddo marchingegno moderno che ha inglobato tutto. Virtualmente. Dalla montagna al mare ho visto prima i pini bianchi coperti di neve nella vallata candida e silenziosa, poi i pioppi di pianura spogliati dalle foglie fradici di pioggia.
La gente solitaria della valle guarda ancora le stagioni al naturale. Nella baita c’era la stufa con il fuoco. Un fuoco di abete. Un legno dolce dalla resina vischiosa che riempie i polmoni ed intasa i camini. Sulle montagne è quello il legno che si brucia. Da calore il vedere le cataste di legna ordinate con maestria sotto le tettoie, stivate con parsimonia nei mesi estivi ed autunnali dagli adulti e dai bambini. La legna dell’anno non va bruciata subito perchè prima deve seccare. Per questo viene lasciata ad invecchiare sotto il sole caldo per un anno intero.
Ho freddo nella pancia ed è quasi natale.
Quanta differenza tra la gente di montagna e la gente di città. Solo ieri ero in quella valle solitaria circondata dalle montagne candide. C’era silenzio. C’era l’inverno come quello che non si vede più da noi nelle città, dove lui e’ diventato  un’“ondata polare” o un“allarme neve” quando fuori la temperatura si avvicina appena a zero. L’altro ieri mattina sono uscito dalla baita e il termometro segnava meno sedici. Quello era un freddo autentico. Il freddo dell’inverno. Il freddo dei miei inverni di bambino, con la neve alta che impediva di aprire la porta di casa. La neve, che portava la felicità del non andare a scuola e poter  così uscire con gli amici nei prati bianchi sfidando il vento gelido. E giocare con le palle di neve. E ruzzolare giù dai pendii per inzupparci tutti fino a pelle. Ridendo.
“Sta facendo molto freddo in questi giorni, e domani notte sarà ancora più gelida. Ma va tutto bene. E’ l’inverno ed è così che deve essere” mi ha detto l’altra sera un vecchio montanaro in un italiano stentato dall’accento austriaco mentre parlavamo di fronte alla stufa. Come dargli torto? Mi ha tolto le parole di bocca.
La gente di montagna, come quella di campagna, è gente semplice, vive le stagioni e si nutre della terra. Lavora con le mani, crea bellissime sculture di legno, ara i campi, miete la paglia sugli aspri pendii.
Amo l’odore dei fienili, il rumore dei ruscelli, il silenzio del gelo , i rumori del bosco quando la neve cade dagli alberi immacolati. Amo le orme delle lepri come piccoli triangoli che corrono sulla neve verso l’infinito e le poiane appollaiate sui rami solitari nei campi cristallini e immobili in cerca della loro preda. Più su, in alto, c’è lo sguardo perpetuo delle montagne aspre che chiamano con le loro vette  silenziose il mio spirito d’avventura e la mia voglia di orizzonti.
Fra poco è natale ed in quelle valli non c’e’ ancora il frastuono delle vacanze mondane. Ma arriverà tra poco, con l’orda dei turisti che hanno prenotato mesi prima pur di accaparrarsi il primo posto al banco della fiaccolata di Gesu’ Bambino e un tavolo al cenone di un capodanno in alta quota. Tutti sorridenti e griffati a fare code inverosimili agli skilift e alle seggiovie, tra gli schiamazzi e le musiche roboanti dei pub a metà pista. Ma e’ natale. Quasi.
Solo ieri ero nel silenzio e il silenzio mi ha fatto provare malinconia. Mi ha fatto pensare a quando il natale era Natale. A quando ero bambino. E ho sentito un po’ di calore nella pancia. Ho ricordato la felicità di allora,  l’aspettare l’arrivo dei parenti alla vigilia, il sorriso della nonna che mi abbracciava forte, l’attesa tutti insieme della mezzanotte e la gioia alla vista di tutti i cibi prelibati preparati per l’occasione.  Sapore di canditi, odore di marzapane e cioccolato, solletico delle bollicine del cin cin, allegria dei sorrisi ingenui dell’infanzia. “Forse il Natale è morto quella volta” mi dico. Eppure non ci voglio credere.
Oggi, stamane, sono stato ad un centro commerciale qui giù, in città. Schiamazzi, persone inacidite, tutti a comperare regali e regalini, code alle casse, gente di fretta, “sto natale, speriamo che passi presto” dice una signora dietro di me, “papa’ voglio questo”, “mamma voglio quello” dicono i bambini, perché evidentemente hanno capito precocemente che oggi Babbo Natale non porta più i regali e che a scendere dal camino sono i genitori. Forse è diventato un precario pure lui o non gli hanno rinnovato il contratto. Anche la slitta è andata ipotecata e pure lui si è dovuto incatenare a qualche gru lassù in Lapponia.
Non voglio fare polemica sterile. La polemica è stancante e io non sono un profeta. Mi sono invece chiesto se potesse essere ormai questo il natale. Un semplice  scambio di regali, un’euforia collettiva che si esaurisce come il fuoco di un bengala,  un cambio dell’ oggetto pubblicitario nelle televisioni che inizia a dicembre e finisce a gennaio, un semplice ponte sul calendario, da sfruttare più o meno bene per scegliersi  le ferie. Ma oltre gli auguri fatti in automatico, gli abbracci perché così si fa, i sorrisi e l’allegria di superficie c’è qualcosa in più?
Vedo alberi di natale fuori dal finestrino della macchina che viaggia sulla strada e ho tutti questi pensieri per la testa. Malinconia, nostalgia, un nodo allo stomaco che vorrebbe farsi strada e non ce la fa. Vedo stelle colorate appese ai lampioni dei paesi mentre guido verso casa, e luci intermittenti. “Sei  solo tu a provare queste cose, il vuoto li fuori non esiste, esso giace solo dentro te. E’ tutta percezione di  una realtà filtrata dal tuo vissuto. Devi stare attento a non proiettare tutto nel mondo esterno “ dice una voce nella mia testa.
Ma sarà vero?  
Forse non ci vorrebbe tanto per provare un po’ di calore e riscoprire il senso autentico del Natale. La vicinanza e la condivisione. Un Natale come celebrazione di un affetto vero.  Gesù Bambino che nasce e porta amore. Gesù che si sacrifica sulla croce per dare un senso alla nostra vita.
“Perdonali Padre perché non sanno quello che fanno”.
Gesù che ci ha donato la speranza ed ha sconfitto la morte. Gesù che nel suo amore ci ha detto di donargli il dolore che abbiamo dentro.
Gesù. Gesù. Gesù.  
Ecco. Adesso ho capito!
Ecco il dono più bello del Natale. Un regalo vero. Una perla preziosa.
Il dolore della fragilità di esseri umani. Coglierlo con le mani giunte a coppa, come un calice. E poi condividerlo. Con una parola, con un gesto autentico, con un piccolo sforzo per essere più veri. Prima di tutto con noi stessi. Aprire il cuore alla sensibilità. Basterebbe un piccolo passo perché poi è la vita e la Provvidenza con la sua amorevole naturalità a condurre avanti nel cammino.
Vedo alberi di Natale fuori dal finestrino. E’ già il tramonto mentre l’autostrada sfreccia tra i villaggi della pianura. La montagna è ormai li dietro, con le sue case dai tetti impervi abbarbicate sui pendii, con i suoi fienili e la sua neve,  il crepitio del ghiaccio e lo scoppiettare delle braci nei camini. Con i suoi fuochi della tradizione contadina che riscaldano.
Vedo alberi di Natale fuori dal finestrino mentre ritorno a casa. E quando sarà notte pregherò Gesù e gli donerò quel poco che potrò. Forse una lacrima, forse una carezza. Purchè sentita.

mercoledì 5 dicembre 2012

Neuroscienze, magia e dolore




Gli psicofarmaci, antidepressivi ed antipsicotici, a livello mondiale si collocano a cavallo dei FANS, gli antiinfiammatori. Si trovano rispettivamente al terzo e quinto posto della classifica dei farmaci piu’ venduti, dopo gli ipolipemizzanti (anticolesterolo)  e gli antiulcera. Questo per focalizzare l’attenzione sul livello di sofferenza psichica  che l’uomo occidentale sta sperimentando. Tanti oltre alla pillola miracolosa che dovrebbe curare tutto, nei momenti di crisi si affidano ai maghi. Certo, le verità assolute non esistono ed ognuno deve cercare la strada che meglio fa per se stesso.
Personalmente non credo che siamo fatti solo di neuroni e che quindi le neuroscienze debbano risolvere tutto in fatto di malattia psichica. 
Credo invece che un farmaco può essere usato per alleviare una sofferenza acuta ed è utilissimo se usato con intelligenza e consapevolezza. 
Al farmaco va affiancato un cammino di conoscenza, di esplorazione di se per capire il proprio vissuto, per ritrovarsi e poter piangere finalmente del dolore autentico per quello che si e' sofferto. 
Secondo me significa trovare un contesto in cui ci si sente amati e protetti e in cui si possa uscire dal guscio protettivo delle proprie resistenze fatte di sintomi, di ansie, di disperazioni e modi più o meno distorti di vedere la propria realtà. 
Vuol dire accettare la propria fragilità e iniziare a fidarsi di qualcuno in grado di poter aiutare. 
Non credo che un mago sia in grado di portare a questo. 
Il mago promette la felicità a basso costo, anzi, a volte anche ad alto costo ma non per questo è in grado di darla. 
Il mago professa l'assenza di sofferenza, che è più o meno quel miracolo a cui tutti aneliamo, ma che del quale crescendo dovremmo riuscire ad accettarne l'impossibilita'. 
Il fare del mago è un alimentare furbescamente una vana speranza infantile. 
Illusione.
Il mago di per se è malato di onnipotenza, solo che i suoi sintomi sono ben mascherati nelle trame del contesto sociale. S
i badi bene che il mago in questo senso può anche essere un professionista della salute e non per forza un plateale Otelma .
D'altro canto è anche vero che trovare persone preparate e in grado di ascoltare, sostenere, accompagnare, che non abbandonano nel momento del bisogno, e' quasi come cercare un ago in un pagliaio, per quanto in giro sia pieno di titoli accademici.

mercoledì 14 novembre 2012

L'insostenibile concretezza dell'essere



Concretezza nelle sue varie interpretazioni versus ineffabilita’, versus capacita' immaginativa, versus capacita' di elaborazione mentale. I bambini oggi sono soggetti a modelli poco concreti. Modelli virtuali non in carne e ossa, ma proiettati nelle loro menti dalla luce fosforescente dei media televisivi. Modelli incistati dalla pubblicita’, dai fisici scolpiti o dalla magrezza estrema, modelli di comportamento e di vita inariditi dalla velocita’, dallo svuotamento del contenuto e anche dalla tecnologia. Modelli che spianano la strada alla frustrazione adulta perche' difficilmente potranno essere equiparati e raggiunti, proprio perche' fittizzi, creati e non reali.  C’e’ una lunga scia di anaffettivita’ dilagante. L’affetto sembra cosi' una preoccupazione. Qualche cosa da gettarsi alle spalle, come il sale che si gettava dietro per superstizione mia nonna quando le regalavano un fazzoletto nuovo. Le preoccupazioni si gettano alle spalle. Anche la responsabilita'  viene gettata alle spalle allo stesso modo. Chi dovrebbe non prende posizione e cosi' facendo non fornisce un paletto stabile di riferimento, che sia il genitore che oggi erroneamente sembra dover per forza essere amico, che sia il capo che non prende una posizione nei confronti del subalterno con il risultato che in ambito professionale e' tutto un darsi del tu e una pacca sulla spalla poco autentici. Il Lei dell'Esercito durante la mia leva da ufficiale subalterno del Genio Guastatori per lo meno non lasciava spazio a dubbi. Chiaro, preciso. Io sto qui e Lei stai li. Invece oggi e' tutto un dubbio, una pari opportunita' ed un politically correct. Concretezza. C’e’ assenza. Assenza di un qualcosa di impalpabile di cui certo si puo' anche essere in parte consapevoli, ma che per riempire il vuoto che lascia, non si hanno ne i mezzi ne le risorse interne. Un vuoto dal quale difendersi con tutto cio' di cui si dispone e con tutte le proprie forze. Le armi a disposizione per la difesa divengono dunque l'attivita' sfrenata e compulsiva e il benessere materiale e superficiale che si puo' comprare. L'automobile sempre di ultimo modello, un IPhone new generation e chi ne ha piu' ne metta, anche una famiglia apparentemente perfetta in superficie se non poi ritrovarsi con briciole di cristallo in mano quando la vita presenta il suo conto salato. Ma la cecita' a volte permane anche ai piu' ardui assalti e si continua a maledire il destino o il fato per la sfortuna. Manca la capacita' di introspezione ed autocritica. Gli occhi sono sempre puntati al fuori e mai o poco al dentro. Cosi' non sono io che elaboro il mondo e le esperienze per divenirne protagonista, ma e' il mondo stesso protagonista ed io vittima del suo protagonismo ineluttabile. Meglio credere ai maghi che divenire responsabili del proprio cammino e capire le cause del mio essere ora. Divago e non ricordo piu' cosa esattamente volevo comunicare, semmai ci dovesse essere un filo conduttore. Ieri per esempio mi e' venuto in mente un pensiero leggendo Freud: noi al novanta percento siamo la nostra fantasia. La fantasia e' eterea, impalpabile, sembra sorgere dal nulla, semmai potrei dire, dalla creativita'. Il nostro mondo  e' fatto di esperienze fantasmatiche che si sommano le une alle altre, si mescolano e si rielaborano in un processo di integrazione e successione. Fantasie, capacita' immaginativa, capacita' di analisi, capacita' di astrazione, capacita' di cogliere e di soffrire per le sfumature dell'esistenza, sono proprieta' astratte del pensiero che nel mondo di oggi a molti sembrano poco concrete e prive di utilita'. Come dire far funzionare la mente e' uno spreco di risorse. Anche il dolore e' in questa dimensione inutile e assolutamente da evitare con pratiche concrete (che so, per esempio il pensiero positivo, la pulizia dell'aura?) e infatti imperversano i santoni profetici con la risposta giusta,  i quali sanno tutto e hanno anche molto seguito. Al vuoto, al dolore ci vuole il rimedio istantaneo, la formula magica, l'abracadabra. E molti ci credono come credevo io al mago Silvan nella mia infanzia.  Peccato che cosi' facendo si perde buona parte dell'autenticita' e della profondita' dell'esistenza. Si perde la capacita' di leggere nelle pieghe del proprio vissuto, si perde la trasformazione del dolore e anche la possibilita' di accettazione della propria condizione di essere umano non onnipotente. Quello che voglio dire e' che la concretezza e la materialita' della vita, per come oggi molte persone la intendono, è una fuga dal mondo relazionale e affettivo, come dire, teniamoci l'albero ma non vogliamo sapere niente delle radici. Ma se le radici non respirano e non sono nutrite a sufficienza l'albero non cresce, anzi si avvizzisce. Invece cercare, guardarsi dentro, trovare le motivazioni autentiche, coltivarle, innaffiarle, sorreggerle, e' potenziale latente che mescolato con l'affetto fiorira' ed apparira' nella sua bellezza, in una concretezza piu' piena e significativa nella quale non si avvertira' piu' il vuoto.

mercoledì 7 novembre 2012

Atmosfere shiatsu

Occhi chiusi, una lampada tenue che riflette sul soffitto una luce calda e rilassante, profumo di rosa, una musica calma. Essere distesi, rilassare i muscoli e lasciarsi andare, liberare le tensioni. La mente vaga tra pensieri irrisori o forse importanti. Attenzione fluttuante a catturare attimi e sensazioni. Stati d'animo presenti e passati. Piccole luci che si aprono nell'oscurita'. Dialogo senza parole in uno spazio che si crea nella relazione tra due persone.

giovedì 18 ottobre 2012

Incipit: L'abbandono

L’ispirazione viene fuori nei momenti di raccoglimento. Almeno cosi’ dovrebbe essere. Nel raccoglimento di un divano ed una stufa scoppiettante, negli attimi rubati dopo aver messo a letto i figli, nel tepore di una coperta di lana profumata adesso che l’autunno si fa piu’ insistente. Dovrebbe essere cosi’.
Invece a me l’ispirazione viene fuori in sella al mio scooter rombante quando dalla citta’ risalgo le pendici dell’altopiano. Con il gas a manetta e il contagiri al limite. Sto attento a schivare le buche della strada su per la salita e sempre con una mano allerta sui freni perchè non si sa mai che sbuchi fuori qualche cinghiale dal bosco. Su per la via della Bellavista li vedo spesso, i cinghiali, saltare fuori dalla boscaglia. A volte e’ la mamma, con dietro i suoi cucciolotti. Sono tenerissimi ed e’ un dispiacere leggere sul quotidiano locale, di quelli che si lamentano e li vogliono ammazzare. La via della Bellavista poi, dopo la sella di Banne, sbuca nel carso, a Banne per inciso. Secondo me li, ad un punto della salita, si trova il più bel balcone sulla città di Trieste. Pochi lo conoscono. E’ semplicemente uno spettacolo. A qualsiasi ora del giorno. Al tramonto, all’alba, di notte. L’occhio si perde verso il mare a sud, verso le montagne a ovest e verso i meno aspri e verdi pendii carsici ad est.

Stasera era gia’ buio che salivo su con lo scooterone. E vedevo le luci della città li sotto. Pensavo rilassato. E pensavo all’abbandono. Riflettevo sul lutto. Mi chiedevo se fosse solo mio questo leitmotiv, se fosse una mia caratteristica personale, una vena malinconica che spunta fuori a tratti nella mia vita e fa appunto, da filo conduttore oppure se fosse una cosa universale comune all’essere umano. Del resto Jung ha parlato di miti, di leggende, di fiabe che sono rappresentazioni dell’inconscio collettivo dell’umanità e di tutti i personaggi e le figure fantastiche che li abitano che sono in realtà gli archetipi universali. Già, archetipi universali in questa umanità che fa di tutto per essere singolare, per non riconoscere un’unione, per esasperare il limite che ormai si e’ perso. Perche’ si è perso? Aiuto, inizio a divagare e le dita iniziano a scrivere piu’ velocemente. Punto, linea, spazio. La barra lunga rappresenta un’ancora di salvezza e un indice del ritmo di battitura. Mi sono accorto dopo anni di pratica al computer, di riuscire a battere senza guardare. Ho imparato automaticamente, senza scuola, ed e’ stata una sorpresa. La mente e’ fantastica. Riesce a elaborare e immagazzinare informazioni senza la consapevolezza cosciente. Apprendiamo senza fatica. Il problema e’ quando si apprende male e passivamente. Il che avviene un sacco di volte. Nella famiglie dove manca affetto, nei bambini maltrattati che non sanno cosa significhi amore e credono che la vita sia quella li, quella offerta da genitori affettivamente analfabeti. E come potrebbero credere altrimenti questi poveri bambini, se non hanno mai visto altro? Apprendimento passivo di ambienti malati che poi verranno riproposti all’infinito. Karma. Peccato che i newageani a questo termine diano tratti esotici che poco hanno a che fare con la realta’. Ma si sa quelli stanno bene solo a navigare sulla Luna e a dire che basta pensare positivo. Poi appena poggiano i piedi per terra “ocio de soto” come diciamo qui a Trieste. Poveretti. Anche loro sono analfabeti.
Nella vita ci vuole concretezza, scontrarsi con le realta’ piu’ scomode, con le realta’ che fanno male, che fanno incazzare. Con le ferite.
Abbandono, Leitmotiv.
No, non e’ solo mio sto benedetto leitmotiv dell’abbandono. E’ un incipit che appartiene a tutti anche se molti non ne vogliono sapere. E allora corrono, corrono e ancora corrono, lasciandosi dietro un vuoto che li attrae. Perche’ la Fisica non perdona. Il vuoto risucchia per pressione negativa. Finche’ non si riempie. Allora gli elementi ritornano in equilibrio. Un equilibrio dinamico di scambio, di conflitto e riappacificazione. Dove non si sono mai conflitti non c’e’ dinamismo e non c’e’ crescita. Come non c’e’ crescita dove ci sono solo conflitti.
La crescita e’ data da una differenza di energia potenziale, dicasi motivazione, da uno stimolo che spinge avanti, possibilmente in alto, da un input che spinge a fare un passo e poi un altro ed un altro ancora fino a che il bambino impara a camminare, poi a correre e a diventare adulto.
Ed infine, a morire.
Colpo basso. Lo so. Ma anche la fine della vita e’ pur sempre naturale. E poi il mio leitmotiv era l’abbandono no? E’ un po’ una vena poetica. Qualcuno potrebbe dire tristezza. Ma no, non e’ tristezza. Assolutamente. E’ consapevolezza che la vita e’ una sinusoide in x, y, z. Tridimensionale. Una sinusoide con una frequenza, con un passato, con un vissuto, che e’ diverso per ognuno, ma anche tanto uguale. L’abbandono alla fine non fa tanto male, se l’incontro e’ stato vissuto, se l’altro e’ stato amato, se ci siamo ascoltati, conosciuti, condivisi Alla fine lasciare andare dovrebbe essere un atto naturale se il percorso e’ stato naturale. Ad ogni modo l’abbandono inutile negarlo, fa male. Un sacco di male. Ci si difende dall’abbandono, o meglio dai sentimenti che l’accompagnano. Chi con la rabbia, chi con l’indifferenza, chi con la depressione. La vena poetica, probabilmente e’ di ognuno, ma se in pochi la scorgono dentro di se e’ perche’ e’ sinonimo di dolore. E il dolore spaventa. Ma il dolore e’ anche quello che ci fa confrontare con la dimensione reale dell’esistenza. Del sono e del saro’. Cosa e come saro’? Non e’ tristezza, direi piu’ curiosita, avidita’ di conoscenza e di assoluto. Forse un pizzico di onnipotenza da controllare, ma niente piu’. Il bambino e’ onnipotente. O meglio, si crede onnipotente nella sua ingenuita’. Vuole l’amore dei genitori, della mamma prima di tutto e lo pretende. Crede di essere il centro dell’universo. Poi nella crescita si scontrera’ con la realta’ che di lui se ne frega assolutamente. Se ha ricevuto affetto, o come dicono gli psicologi, un rifornimento narcisistico adeguato, se la cavera’. Altrimenti sono cazzi suoi, nel senso che se la vedra’ difficile. Affetto ma anche autorita’.
Affetto. Autorita’. Affetto. Autorita’. Affetto. Autorita’.
Conosco molta gente che non riconosce l’autorita’. E sono tutti degli frustrati.
Anche io per molto tempo non ho riconosciuto l’autorita’. E soffrivo da morire. Ero uno frustrato. Pensavo di essere “er meio” e a non meritare di stare sotto.
Adesso credo di essere cambiato. Ma come potevo riconoscere l’autorita’ se non avevo ricevuto affetto?
In sella al mio scooter stasera, ancora prima della famosa salita dei cinghiali, ero fermo al semaforo ed ho avuto un flash (non del semaforo e non dell’autovelox!!!). Ho pensato: “Che brutta la vita senza affetto”. In quel momento mi sentivo bene e pieno di affetto e tutto era piu’ bello e carico di significato. E un peccato non lasciarsi permeare dall’amore per paura di soffrire. Il mondo certo, con l’indifferenza, sara’ sempre pronto a farci cambiare idea, ma siamo sicuri che quel mondo dell’indifferenza non parta anche da noi?