domenica 16 dicembre 2012

Gocce di Natale


Vedo alberi di natale li fuori. Dal finestrino sfilano i paesaggi, velocemente, come il tempo che sembra scorrere in avanti. Velocemente come le mie dita sulla tastiera di questo freddo marchingegno moderno che ha inglobato tutto. Virtualmente. Dalla montagna al mare ho visto prima i pini bianchi coperti di neve nella vallata candida e silenziosa, poi i pioppi di pianura spogliati dalle foglie fradici di pioggia.
La gente solitaria della valle guarda ancora le stagioni al naturale. Nella baita c’era la stufa con il fuoco. Un fuoco di abete. Un legno dolce dalla resina vischiosa che riempie i polmoni ed intasa i camini. Sulle montagne è quello il legno che si brucia. Da calore il vedere le cataste di legna ordinate con maestria sotto le tettoie, stivate con parsimonia nei mesi estivi ed autunnali dagli adulti e dai bambini. La legna dell’anno non va bruciata subito perchè prima deve seccare. Per questo viene lasciata ad invecchiare sotto il sole caldo per un anno intero.
Ho freddo nella pancia ed è quasi natale.
Quanta differenza tra la gente di montagna e la gente di città. Solo ieri ero in quella valle solitaria circondata dalle montagne candide. C’era silenzio. C’era l’inverno come quello che non si vede più da noi nelle città, dove lui e’ diventato  un’“ondata polare” o un“allarme neve” quando fuori la temperatura si avvicina appena a zero. L’altro ieri mattina sono uscito dalla baita e il termometro segnava meno sedici. Quello era un freddo autentico. Il freddo dell’inverno. Il freddo dei miei inverni di bambino, con la neve alta che impediva di aprire la porta di casa. La neve, che portava la felicità del non andare a scuola e poter  così uscire con gli amici nei prati bianchi sfidando il vento gelido. E giocare con le palle di neve. E ruzzolare giù dai pendii per inzupparci tutti fino a pelle. Ridendo.
“Sta facendo molto freddo in questi giorni, e domani notte sarà ancora più gelida. Ma va tutto bene. E’ l’inverno ed è così che deve essere” mi ha detto l’altra sera un vecchio montanaro in un italiano stentato dall’accento austriaco mentre parlavamo di fronte alla stufa. Come dargli torto? Mi ha tolto le parole di bocca.
La gente di montagna, come quella di campagna, è gente semplice, vive le stagioni e si nutre della terra. Lavora con le mani, crea bellissime sculture di legno, ara i campi, miete la paglia sugli aspri pendii.
Amo l’odore dei fienili, il rumore dei ruscelli, il silenzio del gelo , i rumori del bosco quando la neve cade dagli alberi immacolati. Amo le orme delle lepri come piccoli triangoli che corrono sulla neve verso l’infinito e le poiane appollaiate sui rami solitari nei campi cristallini e immobili in cerca della loro preda. Più su, in alto, c’è lo sguardo perpetuo delle montagne aspre che chiamano con le loro vette  silenziose il mio spirito d’avventura e la mia voglia di orizzonti.
Fra poco è natale ed in quelle valli non c’e’ ancora il frastuono delle vacanze mondane. Ma arriverà tra poco, con l’orda dei turisti che hanno prenotato mesi prima pur di accaparrarsi il primo posto al banco della fiaccolata di Gesu’ Bambino e un tavolo al cenone di un capodanno in alta quota. Tutti sorridenti e griffati a fare code inverosimili agli skilift e alle seggiovie, tra gli schiamazzi e le musiche roboanti dei pub a metà pista. Ma e’ natale. Quasi.
Solo ieri ero nel silenzio e il silenzio mi ha fatto provare malinconia. Mi ha fatto pensare a quando il natale era Natale. A quando ero bambino. E ho sentito un po’ di calore nella pancia. Ho ricordato la felicità di allora,  l’aspettare l’arrivo dei parenti alla vigilia, il sorriso della nonna che mi abbracciava forte, l’attesa tutti insieme della mezzanotte e la gioia alla vista di tutti i cibi prelibati preparati per l’occasione.  Sapore di canditi, odore di marzapane e cioccolato, solletico delle bollicine del cin cin, allegria dei sorrisi ingenui dell’infanzia. “Forse il Natale è morto quella volta” mi dico. Eppure non ci voglio credere.
Oggi, stamane, sono stato ad un centro commerciale qui giù, in città. Schiamazzi, persone inacidite, tutti a comperare regali e regalini, code alle casse, gente di fretta, “sto natale, speriamo che passi presto” dice una signora dietro di me, “papa’ voglio questo”, “mamma voglio quello” dicono i bambini, perché evidentemente hanno capito precocemente che oggi Babbo Natale non porta più i regali e che a scendere dal camino sono i genitori. Forse è diventato un precario pure lui o non gli hanno rinnovato il contratto. Anche la slitta è andata ipotecata e pure lui si è dovuto incatenare a qualche gru lassù in Lapponia.
Non voglio fare polemica sterile. La polemica è stancante e io non sono un profeta. Mi sono invece chiesto se potesse essere ormai questo il natale. Un semplice  scambio di regali, un’euforia collettiva che si esaurisce come il fuoco di un bengala,  un cambio dell’ oggetto pubblicitario nelle televisioni che inizia a dicembre e finisce a gennaio, un semplice ponte sul calendario, da sfruttare più o meno bene per scegliersi  le ferie. Ma oltre gli auguri fatti in automatico, gli abbracci perché così si fa, i sorrisi e l’allegria di superficie c’è qualcosa in più?
Vedo alberi di natale fuori dal finestrino della macchina che viaggia sulla strada e ho tutti questi pensieri per la testa. Malinconia, nostalgia, un nodo allo stomaco che vorrebbe farsi strada e non ce la fa. Vedo stelle colorate appese ai lampioni dei paesi mentre guido verso casa, e luci intermittenti. “Sei  solo tu a provare queste cose, il vuoto li fuori non esiste, esso giace solo dentro te. E’ tutta percezione di  una realtà filtrata dal tuo vissuto. Devi stare attento a non proiettare tutto nel mondo esterno “ dice una voce nella mia testa.
Ma sarà vero?  
Forse non ci vorrebbe tanto per provare un po’ di calore e riscoprire il senso autentico del Natale. La vicinanza e la condivisione. Un Natale come celebrazione di un affetto vero.  Gesù Bambino che nasce e porta amore. Gesù che si sacrifica sulla croce per dare un senso alla nostra vita.
“Perdonali Padre perché non sanno quello che fanno”.
Gesù che ci ha donato la speranza ed ha sconfitto la morte. Gesù che nel suo amore ci ha detto di donargli il dolore che abbiamo dentro.
Gesù. Gesù. Gesù.  
Ecco. Adesso ho capito!
Ecco il dono più bello del Natale. Un regalo vero. Una perla preziosa.
Il dolore della fragilità di esseri umani. Coglierlo con le mani giunte a coppa, come un calice. E poi condividerlo. Con una parola, con un gesto autentico, con un piccolo sforzo per essere più veri. Prima di tutto con noi stessi. Aprire il cuore alla sensibilità. Basterebbe un piccolo passo perché poi è la vita e la Provvidenza con la sua amorevole naturalità a condurre avanti nel cammino.
Vedo alberi di Natale fuori dal finestrino. E’ già il tramonto mentre l’autostrada sfreccia tra i villaggi della pianura. La montagna è ormai li dietro, con le sue case dai tetti impervi abbarbicate sui pendii, con i suoi fienili e la sua neve,  il crepitio del ghiaccio e lo scoppiettare delle braci nei camini. Con i suoi fuochi della tradizione contadina che riscaldano.
Vedo alberi di Natale fuori dal finestrino mentre ritorno a casa. E quando sarà notte pregherò Gesù e gli donerò quel poco che potrò. Forse una lacrima, forse una carezza. Purchè sentita.

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