Vedo alberi di natale li fuori.
Dal finestrino sfilano i paesaggi, velocemente, come il tempo che sembra
scorrere in avanti. Velocemente come le mie dita sulla tastiera di questo
freddo marchingegno moderno che ha inglobato tutto. Virtualmente. Dalla
montagna al mare ho visto prima i pini bianchi coperti di neve nella vallata
candida e silenziosa, poi i pioppi di pianura spogliati dalle foglie fradici di
pioggia.
La gente solitaria della valle
guarda ancora le stagioni al naturale. Nella baita c’era la stufa con il fuoco.
Un fuoco di abete. Un legno dolce dalla resina vischiosa che riempie i polmoni
ed intasa i camini. Sulle montagne è quello il legno che si brucia. Da calore il
vedere le cataste di legna ordinate con maestria sotto le tettoie, stivate con
parsimonia nei mesi estivi ed autunnali dagli adulti e dai bambini. La legna
dell’anno non va bruciata subito perchè prima deve seccare. Per questo viene
lasciata ad invecchiare sotto il sole caldo per un anno intero.
Ho freddo nella pancia ed è quasi
natale.
Quanta differenza tra la gente di
montagna e la gente di città. Solo ieri ero in quella valle solitaria
circondata dalle montagne candide. C’era silenzio. C’era l’inverno come quello
che non si vede più da noi nelle città, dove lui e’ diventato un’“ondata polare” o un“allarme neve” quando fuori
la temperatura si avvicina appena a zero. L’altro ieri mattina sono uscito
dalla baita e il termometro segnava meno sedici. Quello era un freddo autentico.
Il freddo dell’inverno. Il freddo dei miei inverni di bambino, con la neve alta
che impediva di aprire la porta di casa. La neve, che portava la felicità del
non andare a scuola e poter così uscire
con gli amici nei prati bianchi sfidando il vento gelido. E giocare con le
palle di neve. E ruzzolare giù dai pendii per inzupparci tutti fino a pelle.
Ridendo.
“Sta facendo molto freddo in
questi giorni, e domani notte sarà ancora più gelida. Ma va tutto bene. E’ l’inverno
ed è così che deve essere” mi ha detto l’altra sera un vecchio montanaro in un
italiano stentato dall’accento austriaco mentre parlavamo di fronte alla stufa.
Come dargli torto? Mi ha tolto le parole di bocca.
La gente di montagna, come quella
di campagna, è gente semplice, vive le stagioni e si nutre della terra. Lavora
con le mani, crea bellissime sculture di legno, ara i campi, miete la paglia
sugli aspri pendii.
Amo l’odore dei fienili, il
rumore dei ruscelli, il silenzio del gelo , i rumori del bosco quando la neve
cade dagli alberi immacolati. Amo le orme delle lepri come piccoli triangoli
che corrono sulla neve verso l’infinito e le poiane appollaiate sui rami
solitari nei campi cristallini e immobili in cerca della loro preda. Più su, in
alto, c’è lo sguardo perpetuo delle montagne aspre che chiamano con le loro
vette silenziose il mio spirito
d’avventura e la mia voglia di orizzonti.
Fra poco è natale ed in quelle
valli non c’e’ ancora il frastuono delle vacanze mondane. Ma arriverà tra poco,
con l’orda dei turisti che hanno prenotato mesi prima pur di accaparrarsi il
primo posto al banco della fiaccolata di Gesu’ Bambino e un tavolo al cenone di
un capodanno in alta quota. Tutti sorridenti e griffati a fare code
inverosimili agli skilift e alle seggiovie, tra gli schiamazzi e le musiche roboanti
dei pub a metà pista. Ma e’ natale. Quasi.
Solo ieri ero nel silenzio e il
silenzio mi ha fatto provare malinconia. Mi ha fatto pensare a quando il natale
era Natale. A quando ero bambino. E ho sentito un po’ di calore nella pancia. Ho
ricordato la felicità di allora, l’aspettare
l’arrivo dei parenti alla vigilia, il sorriso della nonna che mi abbracciava
forte, l’attesa tutti insieme della mezzanotte e la gioia alla vista di tutti i
cibi prelibati preparati per l’occasione.
Sapore di canditi, odore di marzapane e cioccolato, solletico delle
bollicine del cin cin, allegria dei sorrisi ingenui dell’infanzia. “Forse il
Natale è morto quella volta” mi dico. Eppure non ci voglio credere.
Oggi, stamane, sono stato ad un
centro commerciale qui giù, in città. Schiamazzi, persone inacidite, tutti a
comperare regali e regalini, code alle casse, gente di fretta, “sto natale,
speriamo che passi presto” dice una signora dietro di me, “papa’ voglio
questo”, “mamma voglio quello” dicono i bambini, perché evidentemente hanno
capito precocemente che oggi Babbo Natale non porta più i regali e che a
scendere dal camino sono i genitori. Forse è diventato un precario pure lui o
non gli hanno rinnovato il contratto. Anche la slitta è andata ipotecata e pure
lui si è dovuto incatenare a qualche gru lassù in Lapponia.
Non voglio fare polemica sterile.
La polemica è stancante e io non sono un profeta. Mi sono invece chiesto se
potesse essere ormai questo il natale. Un semplice scambio di regali, un’euforia collettiva che
si esaurisce come il fuoco di un bengala, un cambio dell’ oggetto pubblicitario nelle
televisioni che inizia a dicembre e finisce a gennaio, un semplice ponte sul calendario,
da sfruttare più o meno bene per scegliersi le ferie. Ma oltre gli auguri fatti in
automatico, gli abbracci perché così si fa, i sorrisi e l’allegria di
superficie c’è qualcosa in più?
Vedo alberi di natale fuori dal
finestrino della macchina che viaggia sulla strada e ho tutti questi pensieri
per la testa. Malinconia, nostalgia, un nodo allo stomaco che vorrebbe farsi
strada e non ce la fa. Vedo stelle colorate appese ai lampioni dei paesi mentre
guido verso casa, e luci intermittenti. “Sei solo tu a provare queste cose, il vuoto li
fuori non esiste, esso giace solo dentro te. E’ tutta percezione di una realtà filtrata dal tuo vissuto. Devi
stare attento a non proiettare tutto nel mondo esterno “ dice una voce nella
mia testa.
Ma sarà vero?
Forse non ci vorrebbe tanto per
provare un po’ di calore e riscoprire il senso autentico del Natale. La
vicinanza e la condivisione. Un Natale come celebrazione di un affetto
vero. Gesù Bambino che nasce e porta
amore. Gesù che si sacrifica sulla croce per dare un senso alla nostra vita.
“Perdonali Padre perché non sanno
quello che fanno”.
Gesù che ci ha donato la speranza
ed ha sconfitto la morte. Gesù che nel suo amore ci ha detto di donargli il
dolore che abbiamo dentro.
Gesù. Gesù. Gesù.
Ecco. Adesso ho capito!
Ecco il dono più bello del
Natale. Un regalo vero. Una perla preziosa.
Il dolore della fragilità di
esseri umani. Coglierlo con le mani giunte a coppa, come un calice. E poi condividerlo.
Con una parola, con un gesto autentico, con un piccolo sforzo per essere più
veri. Prima di tutto con noi stessi. Aprire il cuore alla sensibilità. Basterebbe
un piccolo passo perché poi è la vita e la Provvidenza con la sua amorevole
naturalità a condurre avanti nel cammino.
Vedo alberi di Natale fuori dal
finestrino. E’ già il tramonto mentre l’autostrada sfreccia tra i villaggi
della pianura. La montagna è ormai li dietro, con le sue case dai tetti impervi
abbarbicate sui pendii, con i suoi fienili e la sua neve, il crepitio del ghiaccio e lo scoppiettare
delle braci nei camini. Con i suoi fuochi della tradizione contadina che
riscaldano.
Vedo alberi di Natale fuori dal
finestrino mentre ritorno a casa. E quando sarà notte pregherò Gesù e gli
donerò quel poco che potrò. Forse una lacrima, forse una carezza. Purchè
sentita.
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