Eppure molti di noi
non vivono internamente ad uno spazio, bensì su una superficie bidimensionale
in cui manca il vettore della profondità.
In poche parole la
loro vita è piatta.
Il loro mondo interno
è sopito.
La loro emotività è
sepolta.
La loro anima soffre
silenziosamente del non poter respirare negli ampi prati verdi della fantasia e
volare nei cieli tersi, costellati dalle bianche e morbide nuvole della
creatività.
La superficie invece
ha solo due dimensioni: lunghezza x altezza.
La superficie è simile
a una scacchiera che permette di muoversi in direzioni prestabilite come fanno
le pedine: sul bianco, sul nero, sul bianco, sul nero, sul bianco, sul nero,
sul bianco...
E' una scacchiera che
permette di muoversi nella coazione a ripetere, su di una superficie di confort
preconosciuta, ma priva di tridimensionalità.
La profondità
purtroppo costa fatica a chi non l'ha ricevuta geneticamente, nel senso di
originariamente, in eredità negli spazi primari.
Lo spazio primario è
lo spazio affettivo nei nostri primi anni di vita, costituito da un perimetro
genitoriale fatto di limiti certi e composto da un amalgama omogeneo di
autorità e affetto.
E' in questo spazio
che si organizza la mente del bambino. E' qui che le percezioni primarie del
neonato, prima angoscianti e catastrofiche, provenienti da un ambiente che non
conosce, acquistano un significato e vengono lenite inizialmente dalle cure
materne e successivamente da quelle paterne.
Contenimento,
accoglimento, tenerezza, base e attaccamento sicuri, disponibilità, maternità
sufficientemente buona, reverie, sono tutte parole che definiscono questa
condizione, in cui la ‘mente genitoriale’ conferisce significato all’esperienza
del bambino.
Quando l'amore manca,
manca tutto.
Lo spazio primario è
il primo spazio di elaborazione, cioè il luogo dove la mente, definita come funzione
complessa deputata ad attribuire un significato personale ed unico alla propria
esperienza del mondo, inizia a formarsi.
La mente, che è
altresì una funzione dinamica, cioè un insieme di forze e processi psichici in
interazione e movimento, continua a svilupparsi, quindi ad evolvere o anche a regredire.
La mente evolve verso
livelli più maturi quando incontra degli spazi di elaborazione adeguati, mentre
si ferma o regredisce a livelli più arcaici, quando questi spazi vengono a
mancare.
Il vettore
'profondità' è costituito dall'affettività.
Man mano che dalla
superficie ci si cala in profondità dentro di sé, ci si inoltra nello spazio
delle emozioni e dei sentimenti.
Una vita priva della
dimensione affettiva, anche se fosse possibile, non avrebbe molto significato e mimerebbe semmai l'esistenza di una macchina.
Eppure molto spesso,
per privazioni o deprivazioni, per traumi subiti, molte persone chiudono la
porta al loro mondo interiore, e così facendo si escludono dalla possibilità di
progredire ed attribuire un significato profondo alla loro esperienza di vita.
Vivono in superficie
per proteggersi dal dolore.
Ma forse vi sarete
chiesti dove vogliono portare tutte queste mie considerazioni.
Riparto dal titolo che
ho voluto dare a questa breve riflessione:
“spazi di
elaborazione”.
Sono pochi gli spazi
di elaborazione in cui si riesce a crescere come persone e credo che in futuro
ce ne saranno sempre meno.
Tutto questo mio
discorso nasce da un incipit che mi ronzava per la testa, cioè il
biotestamento.
La legge sul
biotestamento (Legge 22 dicembre 2017, n. 219 - Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”), apre di fatto la strada
all’eutanasia. Qui tuttavia non voglio entrare nel campo minato delle opinioni e delle convinzioni personali.
Dei vari aspetti che
si possono prendere in considerazione riguardo l’eutanasia, in questo frangente
voglio considerarne solamente uno, che è quello della profonda crisi interiore
in cui si trova colui che vede la morte come unica possibilità di fuga da un
vivere che ritiene intollerabile.
La vita principalmente
è uno stato mentale e una delle caratteristiche di uno stato mentale, proprio
perché la mente è dinamica, è che è mutevole. Insomma lo stato mentale è una
condizione interiore della persona, passibile di cambiamento.
Una crisi interiore
profonda, come quella di colui che vede in faccia una morte concreta, per esempio legata a un malattia incurabile, è una crepa sul mondo
conosciuto. Un'incrinatura della superficie di cui parlavo prima, da cui trasudano i fantasmi
oscuri dell’incertezza, della paura, dell’angoscia, della solitudine, della
disperazione per un orizzonte futuro che si è disperso, perché disgregato da una
malattia o da un trauma subito.
La profondità affiora,
ed emergono, come il magma fuso in ebollizione che sale lungo un camino
vulcanico, contenuti psichici arcaici e manifestazioni affettive intense, che,
se mai percepite e vissute come parte integrante della propria identità,
possono condurre ad un'angoscia intollerabile a cui è preferibile il nulla, il
non sentire, l’anestesia, la morte.
Purtroppo oggi viviamo
in un mondo anestetizzato, in cui l’eutanasia rappresenta un'anestesia totale e
definitiva.
Con l’eutanasia si
ottiene il risultato di sopprimere, prima che un individuo, l’ultimo possibile spazio di
elaborazione, che quella persona avrebbe potuto sfruttare per conferire un
significato autentico e profondo alla sua esperienza di vita. L’ultimo
frangente disponibile per conferire a quell'esistenza una tridimensionalità,
che forse non aveva mai sperimentato. L’ultima spiaggia per elaborare quelle
dimensioni dell’affetto che mai avevano potuto emergere.
Pertanto, consideriamo
l’influenza che il pensiero sociale può avere sullo stato mentale di una
persona in una crisi così profonda.
Questa persona
dovrebbe essere circondata da un contesto affettivo, una rete sociale, esseri
umani, relazioni, che le trasmettano amore per la vita, fiducia, ascolto,
contenimento, accoglimento. Pertanto ambienti e persone che predispongano uno
spazio di elaborazione della sua esperienza e la accompagnino umanamente nell'elaborazione del dramma
che sta attraversando, trasmettendo una vicinanza emotiva, fondamentale per
ripristinare la motivazione alla vita.
Tra una società ‘favor
mortis’ e una società ‘favor vitae’ esiste una bella differenza.
Oggi sicuramente
viviamo in una società ‘favor mortis’ e quello che viene proposto
quotidianamente, a più riprese dai media e ad ogni livello sociale, pare essere
il messaggio che appena arriva il momento più difficile, quando arriva una
malattia incurabile o una condizione di vita ritenuta intollerabile (del resto potrebbe essere anche la noia), non c’è nessun problema, si stacca la spina e si evita di
soffrire inutilmente.
E’ proprio
quell’inutilmente a lasciarmi perplesso.
La sofferenza è
inutile se non viene elaborata. Cioè quando rimane priva di significato.
La sofferenza se è invece
condivisa, diviene una perla preziosa di autenticità e di umanità.
Ma deve
essere riconosciuta, ascoltata, accolta da persone capaci di
accogliere, contenere ed amare.